Rodin prima di essere celebre era solo. E la celebrità, una volta sopraggiunta, lo ha reso forse ancora più solo.
Vi sono molti malintesi che circondano la figura di Rodin, fraintendimenti che si assiepano però attorno al nome e mai attorno all’opera, la quale è cresciuta a dismisura ben oltre il suono e i limiti dell’identità del celebre scultore della seconda metà dell’Ottocento parigino.
Auguste Rodin, nato a Parigi nel 1840 e scomparso a Meudon nel 1917, oggi lo si ricorda come un uomo vecchio, dalla folta barba, lo sguardo accorto ed intenso e con possenti mani che hanno plasmato, lavorato e vissuto come cento. Questa è l’immagine lasciata ai posteri del progenitore della scultura moderna grazie ai numerosi ritratti fotografici tramandatici da Nadar. Plastico è invece il ritratto dell’artista prevenutoci nel tempo, realizzato dalla famosa amante di quest’ultimo, la scultrice Camille Claudel (la cui appassionata ma tempestosa relazione dagli esiti amari ha contribuito ad etichettare negativamente la nomea dell’artista) il quale è esposto proprio fra le primissime opere osservabili nella mostra trevisana dedicata a questo grande scultore.
Esaustiva ed emozionante è la mostra “Rodin. Uno scultore al tempo di Monet” presente al Museo Santa Caterina di Treviso fino al 3 giugno 2018, sponsorizzata da Linea d’ombra e curata da Marco Goldin, nata da un’ispirazione a seguito della lettura del piccolo libro dedicato allo scultore scritto da Rainer Maria Rilke, poeta austriaco che ha saputo cogliere e raccontare l’intrinseca verità celata nelle opere di Rodin.
La mostra, infatti, si struttura come un percorso poetico organizzato in modo cronologico, soffermandosi sulle importanti date di realizzazione delle più incredibili e coinvolgenti opere che hanno recato fama allo scultore. Lo spettatore ha modo di entrare in contatto con quella che è stata la realtà di Rodin, una realtà mescolata – nel suo meraviglioso quanto mai precario equilibrio – con il sogno e la memoria.
Partendo dalla spiegazione del secondo concetto, ‘la memoria’, occorre anticipare che la mostra si apre col ricordo di una data fondamentale per l’artista: il 1876, anno in cui Rodin ha svolto il viaggio in Italia, dove ha avuto modo di conoscere l’arte rinascimentale guardando Donatello e soprattutto Michelangelo, il suo grande ed impareggiabile maestro.
Evidente riferimento dell’ammirazione per il grande scultore fiorentino si riscontra nelle opere degli anni Settanta e Ottanta, anni in cui mette in rapporto le sue ricerche con quelle della scultura antica e rinascimentale. Compaiono come perfetti esempi, oltre alla celebre “Età dell’oro”, le sculture di “Adamo” ed “Eva” che risentono fortemente della michelangiolesca passione per la possente muscolatura umana, accentuata ma al contempo equiparata alle pose eleganti, posate e statiche. Se per la realizzazione di Adamo ha seguito l’anatomia corpulenta del suo modello, un certo Caillou, più curiosa è la posa di Eva: alquanto sgraziata e ancor più massiccia. Rodin ha scelto di rappresentarla consapevole del suo errore, dunque colta in un momento di grande vergogna.
In questi anni Rodin non si concentra soltanto nel rappresentare un valore estetico, “il bello”, l’artista infatti lascia il posto della bellezza alla bruttezza e così facendo reca omaggio a quello scultore quattrocentesco che primo fra tutti individuò nel “brutto” il vero volto della natura: Donatello. Inspirandosi alla sua “Maddalena”, Rodin mentre raggruppava le idee per la Porta dell’Inferno (un lungo progetto protratto fino all’anno della morte dello scultore), aveva pensato di realizzare fra i dannati una donna anziana, nuda, col corpo segnato dal naturale ed inevitabile sfiorire della vita. Il riferimento letterario a quest’opera è una ballata del Quattrocento di François Villon, Il lamento della bella elmiera (da cui prende il nome), componimento in cui una vecchia cortigiana guardando il suo corpo appassito, magro e rugoso lamenta la sua bellezza perduta. Rodin si attinge così a sviluppare una riflessione impietosa sulla natura di un corpo in disfacimento.
“Ciò che in natura comunemente si dice bruttezza, può diventare qualcosa pieno di bellezza nell’arte. Nell’arte è bello solo ciò che ha carattere ed il carattere è la verità essenziale di ogni oggetto naturale”.
Si comprende fin da subito come lo scultore volesse ricercare un’intima verità trattenuta nella materia, la cui indagine cominciava per mezzo di uno sguardo rivolto agli scultori antichi, i suoi modelli. Solo così Rodin ha avuto modo di stravolgere nella sua contemporaneità le categorie estetiche – partendo proprio dal “brutto” e giungendo al “non finito”, così come fecero Donatello per il primo e Michelangelo per il secondo – col desiderio di penetrare totalmente, con tutte le sue forze, nell’essenza umile e severa del suo strumento. Chi vedeva questo atteggiamento come una sorta di rinuncia alla vita, Rodin lo considerava invece una conquista di essa.
Per comprendere appieno questa importante quanto delicato obiettivo dell’arte di questo scultore, occorre leggere le parole di Rainer Maria Rilke che in merito scriveva:
“Fu sulla superficie che concentrò la sua ricerca. Essa consisteva di infiniti contratti tra luce e materia, e ognuno di questi si rivelò diverso da ogni altro e ognuno singolare. In un punto sembravano fondersi, in un altro salutarsi con titubanza e in un terzo passarsi a fianco come estranei. Il vuoto non esisteva. Rodin aveva scoperto l’elemento fondamentale della sua arte: era la superficie, una superficie di grandezza variabile, da cui tutto poteva nascere. Il vero lavoro di Rodin iniziò con questa scoperta. Non esistevano pose, né gruppi, neppure composizioni. Esistevano solo infinite superfici viventi. Ora bisognava impadronirsene e afferrarne l’infinita pienezza. Rodin colse la vita ovunque presente laddove la vide e nessuna parte del corpo era inespressiva o di poco valore: il corpo viveva”.
È con questa scoperta che l’indagine della realtà, già equiparata ad una memoria omaggiata, inizia pian piano a mescolarsi col concetto di ‘sogno’.
Questo tema presente nell’ultima e più bella sala della mostra, è posto in stretta relazione con quello del “non finito” (esposto assieme alle sue più celebri opere realizzate in contemporaneo, quali “Il bacio” e “Il Pensatore”, per citarne alcune).
Il pretesto per confrontarsi con questo effimero tema è stato per Rodin la passione per il mito: la mitologia, in particolare le Metamorfosi di Ovidio, costituì per Rodin una fonte inesauribile di ispirazione, per la ricchezza della narrazione tutta incentrata sul cambiamento perenne. Grazie ad Ovidio, lo scultore si sentiva spronato a raffigurare il mutare delle forme in corpi nuovi, a liberare la forma intrappolata nella materia.
Tra gli esempi più emozionanti compaiono la “Danaide” e “La morte di Adone”.
Per quest’opera Rodin ha tratto ispirazione dal mito delle Danaidi, rappresentando il supplizio senza fine di una delle figlie di Danao, condannate nell’Ade a riempire una botte senza fondo per aver ucciso i propri mariti su ordine del padre. Scostandosi dall’iconografia più convenzionale, Rodin non raffigura la donna mentre cerca di riempiere la botte, ma scolpisce il suo corpo raccolto e riverso su una roccia coi capelli sparsi, esprimendone la disperazione.
Qui Rodin illustra il famoso episodio narrato nelle Metamorfosi di Ovidio: Adone, dopo aver fatto innamorare Venere, viene ucciso da un cinghiale durante una battuta di caccia. Venere allora scende sulla terra, bacia per l’ultima volta l’amato e trasforma il suo sangue in anemone.
Vi si consiglia quindi di non perdere questa bellissima mostra capace di raccontare di quello che è stato lo scultore della pelle e dell’anima, che ha lasciato ai posteri questo sincero augurio:
“Studiate religiosamente, non mancherete di trovare la bellezza, perché incontrerete la verità”.
FONTI
Visita diretta da parte dell’autrice
Catalogo della mostra, M. Goldin, Rodin. Un grande scultore al tempo di Manet, Linea d’ombra
CREDITS
Immagine 7 (Foto dell’autrice tratta dal catalogo della mostra)