Dossier| Made in italy: questione di regole o di emozioni?

Nel pensare al modo migliore per affrontare il tema del made in italy mi sono trovata in difficoltà nello spiegare in cosa il concetto stesso di made in italy consista.

Mi spiego. Per ottenere la certificazione di made in italy un marchio deve dimostrare che il proprio prodotto viene sviluppato e realizzato interamente all’interno del territorio italiano, con prodotti italiani e legato a tecniche produttive tradizionali italiane. Insomma, italiano al 100%, in tutto e per tutto.

E fin qui la questione appare chiara e si diventa consapevoli di come le aziende che possono fregiarsi di tale certificato calino drasticamente di numero. E’ infatti impossibile negare che all’interno della catena produttiva uno dei punti necessari per l’ottenimento della certificazione viene spesso a mancare.

La domanda che mi sono posta a questo punto è però un’altra. Stabilite le norme giuridiche che permettono di classificare un prodotto come made in italy o meno, come si traduce il concetto made in italy nella mente dei consumatori?

Al di là dell’aspetto legale, tendiamo a considerare come italiano ciò che ruota attorno ai nostri connazionali. Pensiamo alla moda: al giorno d’oggi quasi nessuno dei grandi marchi italiani realizza i propri capi vestiari all’interno del territorio italiano. Al contrario, le accuse di sfruttamento di cittadini di paesi esteri allo scopo di ridurre drasticamente i costi di produzione sono cosa nota, quindi certo non sarà per questo che definiremo il marchio Dolce&Gabbana, Valentino o simili come un marchio made in italy.

E allora cos’è che fa sì che i consumatori lo ritengano tale? Forse il fatto che gli ideatori, le menti creative siano italiane? Quindi in sostanza a possedere l’ambito titolo sarebbero le idee, che, generate in Italia o comunque da menti italiane, permetterebbero al prodotto, realizzato magari in paesi come il Vietnam o la Cambogia, di venire considerato come frutto del lavoro italiano.

Bene.

Un’altra domanda sorge pensando a marchi come Motta. Chi non ha mai mangiato un gelato Motta? Direi nessuno, eccetto forse quelle brutte persone dalle tristi infanzie cui i gelati non piacciono. E quanti di noi non legano allo storico marchio l’idea di un prodotto italiano, frutto di una tradizione dolciaria nostrana? Ebbene, il marchio Motta non appartiene più al nostro paese. Ceduto sul finire degli anni 90, venne acquisito da Nestlé (svizzera) che nel 2016 ha poi ceduto il marchio alla Froneri, una joint-venture cui partecipa anche la R&R (inglese). Eppure gli stabilimenti si trovavano fino a pochi mesi fa a Parma (lo stabilimento di Parma è stato chiuso nel settembre 2017 dal gruppo Froneri, lasciando attivi solo gli stabilimenti presso Forentino e Terni, nda). Prodotti italiani, produzione italiana ma proprietario straniero. Quindi forse in questo caso non è l’idea ad essere italiana bensì il prodotto nella sua materialità.

La situazione si fa dunque decisamente complessa.

L’espansione del nostro mondo, la circolazione di idee e merci, la globalizzazione fisica e immateriale, di oggetti e pensieri, hanno disteso strade che uniscono i luoghi più lontani, valicando i confini e trascendendo molti degli ostacoli presenti. Questo ha comportato anche una sorta di allineamento dei pensieri e dei meccanismi economici, una contaminazione di idee provenienti da paesi diversi tra loro, ed è questo un processo inarrestabile e ormai radicato nelle nostre abitudini e nella nostra concezione della quotidianità.

La contaminazione di prodotti e materiali è, per quanto possa non trovarci favorevoli, inevitabile. Un mondo in cui i paesi vivono e si sviluppano slegati l’uno dall’altro è al giorno d’oggi un mondo utopico ma non necessariamente auspicabile. E’ una questione di misura e di punti di vista.

Tornando però alla questione di cosa intendano i consumatori con made in italy, è interessante osservare come il legame e l’affetto che i cittadini nutrono nei confronti un prodotto considerato come italiano spinga talvolta a sorvolare il fatto che quegli stessi prodotti non rispondano in realtà ai requisiti necessari per meritare il l’ambito marchio.

Le manifestazioni d’affetto e affezione verso tali prodotti è tale da spingere i grandi industriali a mutarne il destino.

Sono due i casi cui ho pensato per esemplificare tali situazioni.

Il primo è il caso delle caramelle Rossana.

Incartate in una confezione rosso rubino, sono caramelle dure con un morbido ripieno al sapore di latte, mandorle e nocciole

Entrate nella storia dei prodotti dolciari italiani vennero create nel 1926 dalla Perugina con un nome che omaggiava Roxanne, la donna amata da Cyrano de Bergerac, e riscossero un successo tale da diventarne un prodotto di punta assieme ai noti Baci Perugina.

Nel 1988 però la Perugina entra a far parte del gruppo Nestlé. Da questo momento in poi quindi le linee guida dell’ormai ex azienda italiana dipenderanno in misura maggiore dalle decisioni di mercato prese a livello internazionale.

Quando, nel 2016, la Nestlé deciderà di abbandonare la produzione delle rosse caramelle e a causa del calo dei profitti legati a tale prodotto, il popolo italiano, che aveva negli anni deviato i propri gusti verso prodotti ritenuti meno “d’altri tempi”, si è mobilitato attraverso proteste online, petizioni e pagine facebook. Risultato? Gli svizzeri hanno ceduto le Rossana a Fida, un’azienda tutta italiana.

Il secondo è il romantico caso della birra Pedavena.

Prodotta nel bellunese a partire dal 1897 dai fratelli Luciani, venne acquisita nel 1974 dalla Heineken (olandese), che impostò una politica moderna e multinazionale volta all’espansione del marchio anche al di fuori dei confini nazionali. I risultati furono enormi e il marchio Pedavena riscosse successo e lodi.

Nel 2004 tuttavia la Heineken decise la chiusura definitiva dello stabilimento.

I lavoratori si mobilitarono e chiesero l’aiuto dei sindacati e di vari esponenti politici locali, estendendo man mano la protesta fino a raggiungere il mondo della politica e dello spettacolo, che ne appoggiò la causa. La mobilitazione giunse fino al Parlamento Europeo, il quale si interesso delle sorti dello stabilimento. Grazie ad una raccolta firme (circa 44000) i lavoratori ottennero la riapertura dello stabilimento nel 2006, entrando a far parte del marchio Birra Castello S.P.A., anch’essa di proprietà della Heineken.

Il legame che avvertiamo con i prodotti che sentiamo nostri non tiene conto delle norme che regolano l’attribuzione del certificato ufficiale. La nostra idea di “italiano” segue criteri impalpabili, che trascendono le norme giuridiche e istituzionali, e ciò che i consumatori possono eleggere a simbolo del made in italy non necessariamente potrà quindi godere della certificazione ufficiale. Questo implica allora una messa in discussione delle norme in questione? Certamente no, ma permette di comprendere come la salvaguardia della purezza di un prodotto non sia da legare alla percezione dei consumatori su cosa sia italiano e cosa no.

Si deve tenere sempre ben presente che quando si parla di made in italy, ci si muove su due piani differenti, uno più concreto ed uno più immateriale, e che non sempre è possibile far sì che questi comunichino tra loro.

 


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