Era il 10 settembre 1963 quando un giovane Bernardo Provenzano veniva accusato dell’omicidio di uno degli uomini di Michele Navarra, capomafia di Corleone. Ebbe così inizio la più lunga latitanza riconosciuta ad un esponente di Cosa Nostra. Durante questo periodo si guadagnò i soprannomi di Zù Binnu, U tratturi (per la capacità di travolgere ogni ostacolo), e di U raggiuneri (infatti era molto bravo nella spartizione dei profitti illeciti).
Nel 1969 partecipò alla strage di viale Lazio dove fu ucciso Michele Cavataio, ritenuto responsabile della prima guerra di mafia (conflitto interno all’organizzazione mafiosa avvenuto nel 1962-63 che vedeva contrapposta la cosca dei Greco a quella dei La Barbera) per il fatto di aver seminato zizzania tra i vari clan.
U tratturi prese parte alla violenta ascesa con la quale i Corleonesi presero il potere in Sicilia nei primi anni ’80. Partecipò inoltre ai molti omicidi eccellenti avvenuti durante il dominio di Totò Riina, come le stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma il suo momento al vertice di Cosa Nostra arrivò quando furono arrestati Riina (1993), Leoluca Bagarella (1995) e Giovanni Brusca (1996).
Una volta divenuto Capo dei capi, Provenzano modificò la strategia mafiosa: cercò di rendere invisibile l’organizzazione alla pubblica discussione, una sorta di sommersione per instaurare una pax mafiosa. Non si videro più omicidi eccellenti né attacchi diretti verso lo Stato come nel periodo 1993-94, ma si mantenne un profilo basso. Per limitare al minimo gli incontri, decise di utilizzare un singolare sistema di comunicazione, i “pizzini“, che gli permisero di governare senza esporsi in prima persona.
L’uomo che coordinò la caccia al boss fu il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, che da tempo cercava di acciuffarlo. La cattura richiese svariati tentativi e un impegno sempre costante. La polizia ci andò vicina nel 1995 e nel 1997, ma il latitante riuscì a sfuggire entrambe le volte quando ormai si pensava di averlo preso. Si decise allora di fare attorno al boss terra bruciata, di smantellare la fitta rete di protezione e complicità che gli avevano consentito la latitanza. Fu fondamentale la cattura di Antonino Giuffrè, un mafioso che gli era vicino, la cui collaborazione mise a disposizione materiale investigativo inedito e molto utile per le ricerche. Si arrivò così ad avere una descrizione dell’aspetto fisico, dello stato di salute, delle sue preferenze alimentari e delle sue abitudini. La collaborazione di Giuffrè portò molte informazioni anche sulle persone che favorivano la latitanza di “zù Binnu” e sui postini dei “pizzini”.
Dopo lunghi appostamenti si arrivò così, nel 2006, a ritenere che si nascondesse in una masseria a Corleone. La certezza si ebbe quando i poliziotti videro spuntare una mano verso una tazza piena di ricotta, lasciata fuori da casa sua. Era segno che la masseria era abitata da una persona che non voleva assolutamente essere vista. Così, l’11 aprile, ci fu l’irruzione nella masseria che portò all’arresto dell’uomo più ricercato d’Italia. Con il suo arresto si mise fine a una latitanza durata ben 43 anni, piena di misteri e segreti sulla mafia, ma anche sul rapporto che lo Stato intraprese con essa. Provenzano non collaborò mai con la giustizia, lasciando così una buona parte della storia italiana nella sua oscurità. Morì infine il 13 luglio 2016 a Milano, portandosi ogni segreto nella tomba.
John Dickie, Storia della mafia siciliana, Laterza 2007
Pietro Grasso, Storie di sangue, amici e fantasmi, Feltrinelli 2017