LA VITA E LA MORTE DI KASPAR HAUSER

Kaspar Hauser non è un uomo. Quando la macchina da presa lo raggiunge, e lo mostra segregato da decenni in una cella sperduta nelle campagne della Germania del sud, Kaspar ha tratti che lo avvicinano più agli animali: grugnisce, non è capace di stare in posizione eretta e quindi nemmeno di camminare, non pensa e non sogna, non conosce la scrittura o il linguaggio. La sua esistenza cambia drasticamente quando un uomo senza nome, probabilmente colui che l’ha tenuto prigioniero per tutta la sua vita, decide di liberarlo. Costui insegna a Kaspar a camminare, a pronunciare qualche parola e a scarabocchiare lettere confuse; poi conduce il giovane in città e lo abbandona, con niente più di una lettera di presentazione e un cappello tra le mani.

Così Werner Herzog dà inizio al suo lungometraggio “The enigma of Kaspar Hauser”, film datato 1974 e ambientato nella Germania bucolica del 1828. Ispirandosi ad eventi realmente accaduti, cioè il ritrovamento di un giovane sedicenne che aveva passato la sua vita rinchiuso tra le mura di una torre, Herzog dà vita al suo bizzarro e insolito protagonista, Kaspar, e gli lascia completamente le redini dell’intera vicenda rendendolo un vero e proprio paradigma dell’esistenza umana.

La vita di Kaspar, si diceva, viene stravolta: trovato dai cittadini del paese dove era stato abbandonato, inizia il suo lento e difficile percorso di integrazione all’interno della società. Le primissime cose che gli vengono insegnate sono le semplici regole per il vivere civile: il linguaggio basilare, il relazionarsi con il prossimo, le regole della tavola, la conoscenza degli oggetti e dei riti quotidiani. Tuttavia, non capito e sempre deriso, verrà reclutato per stuzzicare la curiosità del pubblico durante gli spettacoli circensi; finché la sua vita conoscerà una nuova svolta, quando un ricco medico deciderà di accoglierlo nella sua abitazione e di insegnargli a comprendere appieno il mondo e ad esprimere compiutamente i propri pensieri.

Herzog firma un titolo dalla trama accattivante e dalle immagini potenti, il tutto ben condito con una complessa matassa di tematiche che si mostra così ricca, da risultare difficile distinguere tutti i fili che la compongono. A risaltare è l’analisi del diverso, in questo caso incarnato da Kaspar, interpretato da uno splendido Bruno Schleinstein, che riesce continuamente a mostrarsi fuori luogo in ogni situazione, tanto con le espressioni visive quanto con le movenze del suo corpo. Kaspar non verrà accettato nella società finché gli uomini intorno a lui non avranno portato a termine il loro compito: plasmarlo a propria immagine e somiglianza, trasmettendogli pensieri, modi di vivere e di ragionare.

Ma il protagonista non mancherà di esternare il suo spirito ribelle e innocentemente anticonformista, mettendo in imbarazzo la logica deduttiva di un arcigno professore di matematica, e disprezzando le dispute religiose all’interno delle quali alcuni uomini di chiesa cercheranno di intrappolarlo. Kaspar mostra di avere qualcosa che lo rende realmente unico, diverso tanto dagli animali quanto dagli uomini; è un giovane uomo che ha conservato la semplicità del fanciullo, che si pone domande sul mondo ma che al tempo stesso non riesce a trovare un senso ed un significato in ciò che lo circonda, e questo lo porta alla frustrazione.

Per concludere, la vita di Kaspar diventa rappresentativa di quella di ogni uomo: prima un periodo di incubazione in una cella, un momento confuso e sfocato in cui non si è in grado di parlare, camminare e scrivere; poi la liberazione da parte di un misterioso personaggio, un completo sconosciuto (una rappresentazione umana di Dio, forse?), che porta alla crescita e all’inserimento nella società. Infine, mentre si continua a trascorrere una vita in burrasca, scossi da opinioni e desideri altrui, segnati dall’impossibilità di conoscere il mondo, l’uomo che ci ha liberato dalla cella torna a riprendersi la vita che ci ha prima donato, senza preavvisi, senza spiegazioni.


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