“Il bambino sogna”, testo visionario di Hanoch Levin, il più importante drammaturgo israeliano, noto per il suo umorismo cinico e sprezzante, è stato in scena al Franco Parenti dal 20 al 29 marzo 2018. La crudeltà di una condizione famigliare, oppressa da un ambiente esterno che non consente scampo, conduce ad una riflessione su un’infanzia negata, la vita sognante dei bambini catapultata nella cruda realtà del presente.
Lo spettacolo si apre con un quadro famigliare, un tableaux. Tre personaggi sono immobili, quasi a rappresentare una natività cristiana: il bambino dorme al centro, il padre e la madre lo osservano e riflettono. Improvvisamente, il sonno del bambino viene interrotto dall’irruzione del mondo esterno, crudele: un violinista insanguinato stramazza a terra, un comandante della polizia arresta e uccide. Già nella prima scena, lo spettatore si trova immerso in un mondo tragico, ma assolutamente decontestualizzato: l’ambientazione non è precisa, probabilmente per assolutizzare una realtà ordinaria.
La madre e il bambino sono profughi: viaggiano su una barca alla ricerca della salvezza, nella speranza di incontrare una terra che li possa accogliere, lontano dalla brutalità del paese d’origine. La netta contrapposizione tra il sogno del bambino e la realtà crudele apre a spazi onirici e quotidiani, visionari e mondani. Il bambino, a sette anni, diventa adulto a causa della responsabilizzazione forzata: in pochissimi giorni si trova privato dell’amore paterno, costretto a fuggire, senza una spiegazione razionale. Il bambino osserva impotente, nonostante infantilmente tenti di reagire alla realtà brutale: canta una canzone, affidandosi alla pietà, chiaramente inesistente, dei carnefici, riponendo nel potere genuino di una filastrocca infantile tutta la speranza di un futuro segnato.
Lo spazio scenico è dinamico: gli attori recitano sul palcoscenico, ma anche in platea. L’immedesimazione dello spettatore cresce, fino addirittura all’idea di essere parte dell’equipaggio della “barca della speranza”. Gli ambienti sono molti: si passa dall’intimità della condizione famigliare, alla realtà onirica, alla barca dei migranti, alla scena finale, il paese dei bambini morti.
La speranza negata permea l’intero spettacolo, insieme alla disillusione. Ciò investe persino la realtà dei bambini, tradizionalmente contrari alla rassegnazione. La durezza della realtà è chiara nell’ultima scena: i bambini morti sperano in una resurrezione, sempre rimandata, mai accontenta.
Il contrasto umoristico (il tono leggero accostato ad una tragicità così profonda, anche se troppo accentuato dal personaggio della madre) scaturisce non poche riflessioni. Lo spettacolo diventa una metafora della ricerca della salvezza, un’esemplificazione della parabola esistenziale così conosciuta al mondo d’oggi, una continua, smodata, ricerca della risposta alla domanda:
“Come sopravvivere alla vita, e per cosa? A che prezzo?”