Nell’aprile 1968 Martin Luther King Jr. metteva a punto i dettagli di un’iniziativa che pianificava da più di un anno: la Marcia dei Poveri, che avrebbe riversato gli indigenti del paese nel cuore governativo di Washington, mostrando una faccia troppo a lungo dimenticata della ricca America.
Emblematico attivista per i diritti della popolazione afroamericana fin dal 1955 col boicottaggio degli autobus a Montgomery, scatenato dal caso Rosa Parks, il pastore protestante di Atalanta sperava in una nazione capace di realizzare davvero il sogno americano che professava: una nazione in cui tutti gli uomini fossero creati uguali. King fu il portavoce di una campagna che negli anni mobilitò le comunità nere di tutti gli Stati Uniti. Difatti, per convincere delle proprie rivendicazioni l’opinione pubblica, doveva prima costringerla ad ascoltare. Le varie iniziative di disobbedienza civile che patrocinò, sempre condotte nello spirito gandhiano della non violenza, colpivano concretamente i poteri economici e politici di una società lesiva dei diritti umani.
Per questo il suo impegno superò ben presto i confini della questione razziale. La difesa del suffragio dei neri e della loro integrazione nei luoghi pubblici e nell’ambito dell’istruzione furono solo le prime preoccupazioni di chi si considerava il “tamburino in marcia per la giustizia, la pace e la verità”. Il suo intento era affrontare l’ingiustizia sociale ovunque si annidasse, che fosse nei ghetti o nella brutalità della guerra in Vietnam.
Nell’aprile 1968, dunque, King lavorava per una società integrata e fondata sulla fratellanza e l’uguaglianza. Quel mercoledì 3 aprile, arrivato a Memphis, Martin Luther King era però stanco, avrebbe voluto passare la serata dedicandosi ai suoi impegni di reverendo. Ma la città invocava il suo nome: duemila persone si erano radunate al Mason Temple per cercare rassicurazioni. Pochi giorni prima, infatti, King era intervenuto nella protesta dei netturbini sollecitando lo sciopero di tutta la comunità nera di Memphis. Per la prima volta la situazione gli era sfuggita di mano: la manifestazione era sfociata in violenza e causò la morte di un ragazzo.
Quella sera King tenne il suo ultimo discorso. Il giorno successivo venne assassinato con un colpo di fucile al volto. Il Premio Nobel non si era preparato per l’occasione e ne scaturì una predica spontanea e ispirata, semplice ed emozionale, nel tipico stile da pastore del Sud, durante la quale a più riprese un coro di Amen e Yeah fece eco a quella voce da baritono che era riuscita a far breccia nella coscienza di tutta l’America.
Martin Luther King ricordò l’attentato del 1958 durante il quale, mentre firmava le copie del suo primo libro a Harlem, una pazza lo pugnalò al cuore arrivando a pochi millimetri dall’aorta. E quasi profeticamente parlò del proprio futuro, sapeva che ad attenderlo c’erano sono tempi difficili, sapeva che la propria vita era in pericolo, eppure non se ne preoccupava: era giunto “sulla cima della montagna”, aveva visto ormai vicina una “Terra Promessa” di solidarietà e dignità. Era felice di aver vissuto in un’epoca conflittuale, perché solo “quando è abbastanza buio si possono vedere le stelle”, solo in simili circostanze si poteva soppesare la scelta tra bene e male. Essere a Memphis era la scelta meno facile, ma solo mantenendo unità e coerenza, anche a costo di sacrifici, si poteva posare una pietra di speranza oltre l’ostacolo della disperazione.
Cinquant’anni dopo la sua scomparsa, la Casa di Vetro di Milano dedica una mostra fotografica all’uomo che segnò un secolo.
FONTI
Zitelmann, A. (1997). Non mi piegherete: vita di Martin Luther King. Milano: Feltrinelli.
Immagine di copertina “Stone of Hope” parte del memoriale per M. L. King realizzato a Washington, vicino al National Mall, dove il 28/09/1963 il reverendo tenne il famoso discorso “I have a dream”.