In Piccola città Guccini canta:
Vuoto mito americano, di terza mano
Per quale motivo quello del modenese Francesco, che sogna Masters fra la Via Emilia e il West, è un mito di terza mano?
Semplicemente perchè il sogno dell’America, l’America selvaggia, forte, prateria aperta e incosciente, non nasce negli anni Sessanta-Settanta ma prende vita per la prima volta in Italia molte guerre prima, già nel biennio fascista.
Permea in ogni campo artistico, dalla letteratura alla musica, dal cinema alla filosofia, questo mito, che per sua natura, vive di illusioni e speranze, muta la sua pelle a seconda delle stagioni, ed è forse sempre stato più un rimedio alla tristezza e alla desolazione che una concreta volontà di evasione, come l’eroe del fanciullo, l’amico immaginario nell’armadio, il cavaliere in armatura splendente.
Nonostante la stretta del regime tenesse nel suo pugno di ferro anche e soprattutto la sfera della cultura, colpendo o comunque scoraggiando la pubblicazione di testi, e traduzioni di testi, stranieri, i maggiori editori dell’epoca, tra i quali Einaudi, Bompiani e la stessa Mondadori (ai tempi allineata e ben schierata tra le file fasciste) trovarono il modo per far penetrare nelle case italiane il non più così nuovo mondo.
Grazie a questo, l’estrema antitesi del fascismo profumava dell’aria di giovani, poeti e di chiunque potesse trovare un modo alternativo di respirarla. Cesare Pavese scrisse:
“Ci si accorse durante quegli anni di studio che l’America non era un altro Paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove, con maggior franchezza che altrove, veniva recitato il dramma di tutti.”
Proprio Pavese però, che nella sua letteratura lancia i semi di questa visione internazionale, che fa numerose traduzioni e valica le barriere nere, sembra essere già disilluso in La luna e i falò (1950).
Il protagonista Anguilla, orfano piemontese, è l’esempio di chi c’è riuscito: torna dalla lucente America dopo aver fatto fortuna, dopo quella guerra che, al contrario del suo amico Nuto, non ha sofferto.
Il mito, mai maturo abbastanza, seppur compiuto, sembra avere qualcosa di irrimediabilmente irrisolto. Attraverso i fili del racconto ci compaiono come immagini sovrapposte (fisiche e terrene come solo quelle di Pavese possono essere) le figure del protagonista nel suo esilio, del protagonista giovane in terra americana e del protagonista oggi, di fronte ad una vigna che non esiste più.
È allora questo l’obiettivo del mito americano? Con la mente o con il corpo cercare altrove, cercare altro per poi tornare? Cercare le stesse donne e gli stessi campi, cercare la stessa luna e le stesse stelle e non trovarle?
Insieme alla sua lingua sempre più invasiva, insieme alle sue pistole e al suo Far West, l’immagine del grande continente oltreoceano si sgretola tra le macerie del regime fascista. L’America, ora accessibile e reale, non è più qualcosa di desiderabile.
Come Anguilla l’Italia torna all’Italia, per poi ricadere, in un momento di sconforto, nei lustrini di Hollywood e nelle luci di New York.
So please Italy, never forget: Ripeness is All.
FONTI
La luna e i Falò, Cesare Pavese.
Cesare Pavese in “Ieri e oggi” in«L’Unità» (3 agosto 1947).