Uno dei momenti più belli e apprezzati di “Sanremo 2018″ è stato il monologo recitato da Favino. Quello in cui, commosso e commuovendoci, ha tentato di far comprendere cosa spinge a migrare. Un brano centrato sul lavoro, sulla sua ricerca e sugli spostamenti per continuare ad averlo. Lo sfogo di uno straniero che vorrebbe anche solo per un attimo fermarsi su un prato e parlare con un compagno. Si tratta di un frammento de La notte poco prima della foresta (1977).
Bernard Marie Koltès, l’autore, ha saputo rappresentare tutto il groviglio di pensieri, problemi, analisi, mancanze di chi è solo, straniero, emarginato. Li affida a un ininterrotto monologo di un personaggio maschile, il quale durante una notte di pioggia avvicina un giovane. E’ talmente immacolato da sembrare un bambino. Un nuovo amico con cui confidarsi. Chi si racconta è infatti alla continua ricerca di nuovi rapporti, di complicità, non solo amorose. Così com’è alla ricerca di una stanza “solo per la notte”.
Vi è infatti una totale mancanza di appigli, sia concreti che psichici, emotivi. Così oltre alla pioggia, incessante ritmo del racconto, onnipresente è anche la corsa. L’affanno di una ricerca continua di lavoro, lo spostarsi continuo. La ricerca di amori impossibili. Non solo donne, puttane o innocenti, ma anche materni, fraterni, amichevoli.
Un affanno in cui si alternano le analisi, le osservazioni di un occhio esterno, distante, emarginato. L’osservazione della realtà e il flashback che riporta a un passato quasi irreale ed onirico; verso un presente in cui il dolore è come la pioggia: pare arrestarci, ma porta a sopravvivere. Mentre la persona vorrebbe per una volta riposare, fermarsi, chiacchierare con qualcuno, o semplicemente trovare una stanza, una camera che diventi subito casa. Non nel senso tradizionale. Una camera come albergo, perché lo vuole il continuo peregrinare alla ricerca di qualcosa, di qualcuno, di certezze fisiche ed emotive.
Una corsa in cui ci viene raccontato di emarginati, del mondo visto da loro, del mondo vissuto da loro. Dei luoghi in cui irruentemente giungono gli estranei. Le persone benestanti e benpensanti di quella società detta comune. Una corsa in cui il respiro è breve come un pensiero, in cui entrambi sono soffocati dalla realtà.
Così il tutto è raccontato d’un fiato. Il testo è fluente e di una prosa incalzante, e crea uno sfogo incessante e ininterrotto. Tant’è vero che di punteggiatura ve n’è quanta ne basta: deve rendere l’idea di questa “esplosione” di pensieri. Così può travolgere, coinvolgere, creare un’empatia con il protagonista, far comprendere.
“Una sola frase di quaranta pagine, emessa quasi d’un solo fiato, senza quei punti fermi che a ogni momento minacciano d’interrompere il bisogno lucido e poetico di un getto di parole.” (B.M. Koltès, nell’introduzione al testo)
Un altro rimando alla mancanza di punti fermi vissuta da chi, nomade per lavoro o per fuggire, è straniero e solo. Il poema, dall’evidente vena teatrale, ben presenta quest’assenza e la sofferenza che scatena. In particolare i problemi legati all’identità, alla moralità, all’isolamento, e alla difficoltà dell’amore. Una mancanza di radici, di affetti e di complicità. Al contempo vi è un rifiuto di omologarsi: il protagonista rifiuta il lavoro in fabbrica, auspicando a un utopico sindacato internazionale. Così racconta di cambiare subito le camere in cui va ad abitare rendendole simili a camere d’albergo, nel tentativo di cancellare ciò che gli ricorderebbe che è straniero.
Già dal titolo sono evidenti queste mancanze. La notte è l’esistenza intera, il disagio l’estraneità. Quel dramma espresso d’un fiato. Il titolo richiama il mistero, il buio, il disagio. La notte e la foresta sono il non luogo dello straniero. La precarietà sta nel flusso di coscienza, un nomadismo sia fisico che psichico. Non vi sono appigli nè fisici nè emotivi.
Un testo di un’importanza immensa, tristemente attuale. Perché sempre più persone con la scusante del malessere si lasciano obnubilare la mente dai politici, non sanno cosa sia un migrante, cosa sia un profugo, cosa spinga a lasciare tutto abbandonando la propria patria. Invece pensando di sapere giudicano. Il titolo si riferisce a quel momento poco prima del punto di non ritorno della nostra umanità, una breve distanza dalla fine del mondo, quel punto che potremmo presto raggiungere.
Bernard Marie Koltès “La notte poco prima della foresta”. Les éditions de Minuit Parigi. 1988.