Francesca Rocculi è una delle psicoterapeute della Cooperativa Sociale Cerchi d’Acqua, centro antiviolenza nato nel 2000 e che fino ad oggi ha aiutato all’incirca seimila donne. Ospitata dalla Casa dei Diritti, Francesca Rocculi ha allestito la mostra Com’eri vestita, inaugurata il 13 marzo e prorogata fino alla fine del mese.
L’installazione è nata dall’idea di voler dimostrare direttamente che non sono ammesse giustificazioni riguardo alla violenza sessuale femminile. La giustificazione più sentita dall’opinione pubblica è il titolo della mostra che attraverso questa accusa (‘’com’eri vestita?’’) tende a rendere colpevole dell’abuso sessuale la stessa vittima, mettendo sullo stesso piano il carnefice. Oltre a sensibilizzare i visitatori, la mostra solleva la questione della violenza di genere, tristemente attuale. Questo tema viene affrontato dal punto di vista di chi è stata effettivamente vittima di un fenomeno ampio e trasversale. La violenza di genere oggi mostra lo squilibrio dei poteri che scaturiscono dall’ambiente tradizionale e culturale rimandando al tema dell’emancipazione della donna come tale, non particolare ma universale.
Abbiamo fatto alcune domande a Francesca Rocculi:
- L’installazione colpisce di primo impatto lo spettatore. Perché avete voluto raccogliere e mostrare il vestiario delle vittime di violenza?
Per diversi motivi, a diversi livelli. Decidere di “mostrare” il vestiario accompagnato da brevi suggestioni connette l’esterno, cioè l’esposizione, con l’interno del nostro centro antiviolenza, ovvero le attività che offriamo. La scelta della mostra si inserisce all’interno dei percorsi psicoterapeutici individuali e di gruppo che si svolgono a Cerchi d’Acqua: lavoriamo e ci impegniamo, tutti i giorni, per accompagnare le donne in un percorso di uscita dalla violenza, e per promuovere l’elaborazione del trauma subito. A tal fine occorre che l’esperienza venga messa in parole. Inoltre, la rottura del silenzio, garantito l’anonimato e tutelato il modo in cui la donna ha deciso di raccontare, permette di superare l’isolamento, la vergogna e la colpa vissuti, senza necessariamente esporsi a strumentalizzazioni mediatiche. Abbiamo ricercato un modo per narrare la violenza alle donne che fosse il più lontano possibile dall’ennesima notizia di cronaca costellata da tinte sensazionalistiche e da spettacolarizzazioni, che altro non ottiene se non aumentare i pregiudizi e gli stereotipi sul fenomeno e tralascia la naturalezza sistematica con cui avviene la violenza alle donne, alle ragazze, alle bambine.
Rispetto, dignità e umanità per le donne che hanno subito violenza significa per noi parlare di un fatto solo nella misura in cui esporre i particolari di ciò di cui si parla diviene utile per informare e sensibilizzare, per far sì che si possano comprendere realmente le situazioni e le cause, e nello specifico il fenomeno della violenza alle donne. Come ha lasciato scritto sul quaderno dei commenti una donna, madre, che si è recata alla mostra decidendo di visitarla con la figlia: “perché la consapevolezza sia un modo per difendersi”.
- Le testimonianze proposte alla mostra sono un riscontro diretto del messaggio che volete comunicare, il pubblico l’ha colto?
Crediamo di poter dire di sì… Si è creato un passaparola spontaneo, che ha avuto in sé una forza amplificatrice, ha creato una cassa di risonanza, un flusso quasi costante di persone che si sono recate alla mostra. Nei giorni di “apertura al pubblico” abbiamo visto entrare alla Casa dei Diritti tante donne, alcune sole, altre in gruppo, uomini, giovani ragazzi e ragazze, piccoli gruppi di amici, famiglie con i figli, gruppi classe accompagnati dai professori…
Una mostra che desideriamo definire “coraggiosa” perché disturba l’animo in maniera sottile, un’opera collettiva frutto del lavoro delle donne che tutti i giorni accolgono altre donne, e che vuole essere una risposta concreta per far riflettere sulla violenza alle donne. L’eco che abbiamo ottenuto dal pubblico va esattamente in questa direzione, e constatiamo quanto sia presente la necessità di parlare del tema in un modo differente.
- C’è un collegamento tra la vostra installazione e il progetto di Katherine Cambareri (2016) ‘’Well, What Were You Wearing?’’?
Katherine Cambareri, all’epoca studentessa universitaria, decise di dare avvio a un progetto/documentario di raccolta di fotografie (attraverso una “call” lanciata su Facebook) che mostrava gli abiti che le donne indossavano nel momento in cui avevano subito una violenza sessuale. In alcuni articoli si legge che come studentessa universitaria nei campus aveva sentito parlare moltissimo di violenza sessuale; infatti, è un grave problema che affligge le studentesse, precisamente in un contesto e in un luogo dove le ragazze si recano per imparare, crescere, e costruire il proprio futuro. Già nel 2013, le docenti universitarie Mary Wyandt-Hiebert e Jen Brockman – ispirate dalla poesia di Mary Simmerling, “What I was wearing” – avevano creato un’installazione in cui le persone potevano interagire con il tema della violenza sessuale in un modo più tangibile. Noi ci siamo messe inizialmente in contatto con le docenti americane e poi abbiamo deciso di rappresentare una realtà più vicina al nostro mondo.
Il fil rouge che unisce noi e altre donne oltre oceano, al di là dell’impegno sociale, è la constatazione che sono ancora troppo presenti nell’immaginario collettivo stereotipi e pregiudizi riferiti alla violenza alle donne, e nello specifico, a quella sessuale. Se le persone non iniziano a parlarne, il cambiamento culturale sarà impossibile da attuare. Perché la reale risposta alla domanda “Com’eri vestita?” dovrebbe essere, “… indossavo gli abiti di tutti i giorni”. È incredibile che ancora oggi si colpevolizzi una donna per le azioni di qualcun altro.
- 4. Accanto ad ogni abito si trova un pensiero personale riguardo al momento della violenza. Chi ha testimoniato la propria violenza? A che fascia di età, condizione sociale e culturale, vi siete riferiti?
Non ci siamo riferite a un gruppo in particolare, ma rappresentiamo le donne che accogliamo al nostro centro antiviolenza, a Milano. Più dell’80% sono donne italiane, con profili socio-culturali medio-alti, così come possiamo dire lo stesso dei maltrattatori e degli abusatori, prevalentemente appartenenti all’ambito familiare: sono uomini italiani, ben inseriti nella società, con posizioni lavorative di buon livello…
Cerchi d’Acqua accoglie donne maggiorenni, le suggestioni si riferiscono a violenze sessuali, molestie e abusi subiti non solo in età adulta, ma anche da ragazze, adolescenti o appena adolescenti, purtroppo alcune anche da bambine.
- 5. La Cooperativa Sociale Cerchi d’Acqua ha in programma nuove iniziative per sensibilizzare la violenza di genere?
Cerchi d’Acqua, nata nel 2000 a Milano, oltre alle attività rivolte alle donne, ha dedicato molto del suo operato alla realizzazione di campagne e azioni di sensibilizzazione e di informazione sul tema della violenza di genere.
Quest’anno ci siamo inoltre impegnate nel lancio di un concorso per nell’ambito del progetto “Pari e … Dispari”, finanziato dal Comune di Milano, che ci ha dato, ancora una volta, l’opportunità e l’occasione di entrare nelle scuole superiori milanesi. L’obiettivo degli incontri con i ragazzi e le ragazze è stato quello di far conoscere il fenomeno della violenza alle donne e le discriminazioni tuttora presenti, attraverso l’individuazione degli stereotipi che le mantengono, legittimano e rafforzano. Abbiamo deciso di coniugare i due mondi, i giovani e i murales, perché gli stereotipi di genere limitano le possibilità e le opportunità dei giovani adulti di sviluppare il proprio potenziale e di costruire la propria identità, e i murales per contro, così come l’arte in generale, favoriscono la libera espressione di sé. Ora siamo giunte alla fase conclusiva del progetto, cioè la realizzazione degli elaborati vincitori su alcuni muri nella città di Milano.
CREDITS
Cerchi D’Acqua – Cooperativa Sociale