New Slaves
Una mattina del lontano 1619, una nave olandese attraccò a Jamestown, un insediamento di coloni inglesi nell’allora colonia britannica della Virginia. Cosa trasportava quella nave? Venti schiavi.
Si stima che fra il quindicesimo e il diciannovesimo secolo siano stati trasportati nelle Americhe per essere venduti come schiavi circa 10 milioni di africani. 430.000 di loro, sbarcarono nel territorio oggi conosciuto come Stati Uniti d’America.
Secondo lo storico statunitense Howard Zinn, ciò che rese più semplice ridurre in schiavitù i neri rispetto alle popolazioni native del Nord America fu la loro impotenza (Zinn in inglese usa la parola helplessness, che rende molto più l’idea). Essi erano stati infatti “torn from their land and culture, forced into a situation where the heritage of language, dress, custom, family relation, was bit by bit obliterated”.
I neri erano infatti sistematicamente privati della loro identità non appena giunti nel Nuovo Mondo. Nelle parole dell’attivista per i diritti umani e controverso leader nero Malcolm X: “The devil white man cut these black people off from all knowledge of their own kind, and cut them off from any knowledge of their own language, religion, and past culture, until the black man in America was the earth’s only race of people who had absolutely no knowledge of his true identity.”
A Zulu love
Come appropriarsi nuovamente di un’identità andata perduta secoli fa?
Le risposte date dai pensatori afroamericani nel corso degli anni sono state molteplici, ma oggi noi ci concentreremo solo su una di esse, partendo proprio dal già citato Malcolm X.
Malcolm X fu infatti uno dei primi pensatori afroamericani a proporre una riconnessione con la propria eredità culturale africana come una possibile soluzione alla crisi di identità che colpiva i neri negli Stati Uniti. In un passaggio della sua celebre autobiografia, fece notare come la loro terra d’origine non fosse popolata da “heathen, black savages, swinging like monkeys from trees” ma da uomini e donne che “built great empires and civilizations and cultures while the white man was still living on all fours in caves”.
L’orgoglio nero (black pride) cominciò a diffondersi nella comunità afroamericana a fine anni ‘60, fra pettinature afro e indumenti tipici africani.
Kendrick Lamar, by far, realest nigga Negus alive
Il black pride caratterizza black pop culture ancora ai giorni nostri, e, parlando di musica, Kendrick Lamar ne è un ottimo esempio.
Nel suo acclamato terzo album, To Pimp a Butterfly, l’enfant prodige di Compton discute dell’uso della parola “nigger” da parte della comunità nera, giungendo ad una soluzione piuttosto originale. In un verso dedicato ad Oprah Winfrey, che si è sempre opposta all’uso della n-word da parte della comunità hip-hop, Kendrick da una nuova definizione della parola, “straight from Ethiopia”:
[blockquote]“N-E-G-U-S definition: royalty; King royalty
N-E-G-U-S description: Black emperor, King, ruler”[/blockquote]
Come spiega da Kendrick, negus era infatti l’appellativo con il quale nella monarchia etiopica era designato il sovrano, definito più precisamente nĕgùsa nagàst, corrispondente al greco βασιλεὺς βασιλέων (ossia “re dei re”).
La leggenda narra che capostipiti della dinastia reale etiope furono Salomone, re di Israele e figlio di Davide, e la Regina di Saba, leggendaria sovrana di un antico regno mediorientale. Secondo quanto narrato nel Kebra Nagast (“Gloria dei re”), loro figlio Menelik fondò infatti il regno di Aksum, nella parte settentrionale del territorio che al giorno d’oggi è noto come Etiopia.
Piccola curiosità: il Rastafarianesimo, movimento religioso nato in Jamaica negli anni ’30, prende il proprio nome da Ras Tafari, incoronato ultimo imperatore dell’Etiopia con il nome Haile Selaisse. Nonostante sia morto circa quarant’anni fa, l’ultimo negus è tuttora venerato dai Rastafariani, in quanto considerato incarnazione di Gesù.
Curiosità e leggende a parte, Aksum, regno tanto antico quanto potente, è realmente esistito, e utilizzando il termine negus, Kendrick Lamar – come aveva già fatto Malcolm X – vuole ricordare agli afroamericani che la loro eredità culturale non è qualcosa di cui vergognarsi, ma di cui andare fieri:
[blockquote]“The history books overlook the word and hide it
America tried to make it to a house divided
The homies don’t recognize we been using it wrong
So I’ma break it down and put my game in a song”[/blockquote]
Kendrick riprende questa idea anche in DNA., secondo estratto da DAMN., ultima fatica discografica del rapper:
[blockquote]“I got, I got, I got, I got
Loyalty, got royalty inside my DNA”[/blockquote]
Kendrick “king of (West Coast) rap”? Piuttosto “realest Negus alive”.
Qui potete ascoltare le canzoni citate nell’articolo:
FONTI
Zinn, Howard (1980). A people’s history of the United States. 2015 Edition. New York: HarperCollins. p. 26
X, Malcolm (1965). The Autobiography of Malcolm X. 2001 Edition. London: Penguin Books. p. 256
Genius | Kendrick Lamar – DNA.
The Guardian | Great dynasties of the world: The Ethiopian royal family