Elif Shafak è un’autrice turca dalla vita straordinaria e moderna: ha viaggiato e vissuto in più posti della maggior parte della gente. Alla TEDGlobal 2010 ha tenuto una conferenza sul ruolo politico della letteratura, riallacciandosi proprio alla sua esperienza cosmopolita.
Essere uno straniero non è mai facile, in parte per motivi esplicitamente razziali, in parte per i semplici stereotipi che fanno parte dell’immaginario comune, più o meno maliziosamente. Per Shafak questa situazione si può sintetizzare con l’espressione: “lo straniero rappresentante”. In quanto turca, durante il suo periodo di formazione in una scuola internazionale a Madrid veniva automaticamente additata come il simbolo vivente di quello che accadeva nel suo paese, o delle idee che a questo venivano associato.
Lungi dall’essere un problema circoscritto alla mentalità dei ragazzini o al puro ambito sociale, questo stesso stigma è venuto fuori anni dopo nel corso della sua carriera, quando iniziò a scrivere i suoi romanzi in inglese, con personaggi, luoghi e situazioni tipicamente americani. In un’occasione in particolare il suo editore le disse che avrebbe preferito che il suo libro fosse stato diverso, nonostante lo avesse gradito. Perché? Perché nel testo non compariva nessuna donna musulmana, ossia qualcuno che potesse rappresentare efficacemente l’identità dell’autrice – o meglio, l’identità che l’editore associava ad Elif.
Il problema è tipico della letteratura che non sia occidentale; ci si aspetta sempre un certo tipo di impostazione, o un determinato tipo di trama. Si tratta forse di una trovata commerciale, di una banalizzazione dell’identità degli autori stranieri, di semplice ristrettezza mentale o forse di adesione al primo e più semplice presupposto su cui si fondano tutti i corsi di scrittura creativa: scrivi di quello che conosci.
Per Shafak, invece, la letteratura ha tutt’altro scopo, tutt’altro intento; deve essere uno strumento per allargare le proprie frontiere, dare sfogo alla fantasia, e se non letteralmente abbattere le barriere che si innalzano fra i gruppi di persone, almeno farci dei buchi sufficientemente grandi per dare un’occhiata fuori, e forse gradire quello che si vede.
Perché è vero, in tempi come questi la letteratura può essere uno strumento prezioso per farsi portavoce di storie che vanno raccontate, realtà che non si possono ignorare e culture che meritano rispetto, ma non deve necessariamente diventare uno strumento politico.
Non è giusto aspettarsi che ogni libro di ogni autore rispecchi solo e soltanto l’identità sociale di chi lo scrive. In più, come sostiene Checkov: “La soluzione ad un problema ed il modo migliore di porre la domanda sono due cose completamente diverse, e solo quest’ultima è responsabilità dello scrittore.”
Non da ultimo, qualsiasi forma di letteratura può unire i popoli, senza dover per forza trasmettere un messaggio o un’idea politica; il semplice apprezzamento di una certa opera da parte di persone completamente diverse, e appartenenti a culture diverse, è un traguardo importante e un modo per unire.