Eros e Thanatos, amore e morte. Ogni cultura sembra aver assorbito in sé questa antitesi, che emerge nei racconti mitici di tutte le popolazioni assumendo volti sempre cangianti ed elusivi; l’impressione è che, pur costituendosi come trave fondante di ogni civiltà, il suo significato sfugga ancora alla coscienza. Per districare il torbido abisso di pulsioni, concetti e leggende può essere utile porre a confronto l’archetipo greco con altre culture diverse dalla nostra: in primis quella indiana.
Ma cosa significa amore e morte nel pensiero greco? Ne parlano diversi autori antichi, identificando il termine Eros con il principio della vita, la pulsione del desiderio che porta all’azione e al perpetuo divenire; Thanatos, invece, viene identificato con la morte, la staticità, la pulsione connaturata all’essere che conduce al nulla, dove niente può più accadere. Nei tessuti stratificati del mito, il dio Eros viene infatti rappresentato come un giovane nel pieno delle forze vitali, dio dell’amore e del desiderio, che secondo il pensiero greco dominano la fanciullezza dell’uomo. Dalla parte opposta, varie figure vengono identificate con il principio della morte, primo tra tutti Ade, fratello di Zeus e dio degli inferi. Persefone, la sua sposa, incarna invece il legame che unisce la femminilità con la distruzione, e che sarà molto sviluppato sia nella letteratura greca che in quelle successive; gli esempi sono innumerevoli, basti pensare soltanto al mito di Pandora o all’amore tragico di Medea, che uccide i suoi figli per vendetta.
Anche nella mitologia indiana questi due concetti vengono personificati da peculiarissime divinità, la cui separazione, nella molteplicità dei testi e dei culti, non è altrettanto netta e definita. Il principio della morte viene impersonato da due divinità, Shiva e Kali, legate tra loro da un rapporto di complementarità, poiché l’uno senza l’altra è inerte. Entrambi rappresentano la distruzione, anche se generalmente Kali viene considerata più aggressiva anche nell’iconografia: viene infatti rappresentata con una ghirlanda di teschi, una gonna di braccia mozzate e la lingua di fuori, grondante di sangue. Shiva, invece, fa parte della Trimurti, una figurazione divina che unifica in sé gli aspetti delle tre più importanti divinità (Brahma, Visnu, Shiva), e in cui Shiva corrisponde alla distruzione cosmica.
Il dio che maggiormente rappresenta l’amore, e dunque il principio della vita, è Kãma (da Kam che significa desiderio). Come il dio greco, anche Kãma è un giovane, raffigurato sempre con un arco e frecce fiorite che scocca nel centro esatto del cuore delle sue prede. Secondo alcuni testi antichi, inoltre, egli si sarebbe autogenerato, come a ribadire la straordinaria forza della vita che sgorga anche dal baratro del nulla.
Ma, in realtà, il principio della vita non è negato neppure dalle due divinità distruttrici. La devastazione che Shiva e Kali portano non è affatto fine a se stessa e non sfocia nell’annullamento dell’essere; piuttosto deve essere intesa come una sorta di purificazione, come l’annientamento di ciò che è guasto e marcescente per fare spazio al nuovo. In questa prospettiva, dunque, la morte si costituisce come tappa necessaria per giungere al cambiamento; infatti i due sposi vengono anche identificati come le divinità della trasformazione. Nell’iconografia questo aspetto viene suggerito dal colore scuro di Kali: il nero è il torbido abisso che risucchia ogni colore e simboleggia la trascendenza della dea, il gonnellino di braccia la liberazione dalle cicliche rinascite. Shiva, dal canto suo, è quasi sempre rappresentato nell’atto di eseguire la danza cosmica, che scandisce il ritmo vorticoso dell’universo e si costituisce nelle tre tappe fondamentali della creazione, annientamento e rigenerazione.
L’omnicomprensività della mitologia indiana sembra trovare corrispondenze con il pensiero del filosofo Empedocle che sosteneva che all’origine del cosmo i due principi fossero uniti nello Sfero, ovvero il Tutto. Anche qui è presente la dialettica tra vita e morte come processo obbligato, affinché l’anima, trasmigrando nei corpi, giunga infine alla liberazione necessaria.
Fonti:
C. Almirante, Miti e leggende di amore e morte, Centro internazionale Studi sul Mito, 2010
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