Il romanzo della vita. Riflessioni a partire da “La Peste” di Camus

Era nostra intenzione scrivere delle riflessioni su La peste di Albert Camus, capolavoro assoluto. Era nostra intenzione farlo, ma la difficoltà nel mettere insiemi pensieri che valessero anche quanto solo una riga del romanzo ci ha convinto a desistere. E allora abbiamo sviluppato un’altra riflessione, sulla scrittura, sui romanzi, sul dovere di uno scrittore, tutto insieme. Questa riflessione nasce da una semplice constatazione, tanto ovvia quanto necessaria: La peste è il “romanzo della vita” di Camus. Affermare ciò è qualcosa che viene naturale, spontaneo, automatico. Anche senza pensare a cosa voglia dire effettivamente l’espressione “romanzo della vita”. Il romanzo della vita è quel romanzo che un autore prova a scrivere da tutta la vita, fin da quando scriveva filastrocche sulle maestre delle elementari. Non abbiamo intenzione di smentire questa definizione naturale e perfetta, che rimarrà tale. Piuttosto vogliamo ricostruire la serie di pensieri che ci spinge a dire, dopo averci pensato, che il romanzo della vita è proprio ciò di cui detto sopra.

Che la storia letteraria di un singolo autore si possa interpretare come un solo lungo libro è un altro fatto incontrovertibile. Un autore scrive e scrive, continua a farlo. Cerca e ricerca, si arrovella sugli stessi temi, personaggi e parole. Quella ricerca continua in cui mette ogni fibra del proprio essere è la quete dei cavalieri medievali. E l’oggetto desiderato dallo scrittore è il suo libro. Ma non un libro qualunque: il Libro, il romanzo della vita. Sembrerà un’interpretazione romantica e sentimentale del lavoro dello scrittore, ma smentiamo subito. Ogni autore ha il suo nucleo di “cose da dire”. Quell’insieme inscindibile di cose che deve, necessariamente, esprimere. Può essere la denuncia di una condizione, un’ode all’amore o all’odio, la definizione di un tema. Qualunque cosa. Ma ogni autore ha il suo cuore di cose da dire, che devono uscire e che lo spingono a scrivere. Perché se non avesse qualcosa da dire per forza non ci perderebbe tanto tempo, e se le parole bastassero la poesia non esisterebbe, come diceva Montale. Il lavoro dello scrittore diventa questo, dal momento in cui inizia a scrivere. Trovare quel nucleo di cose da dire e la forma adeguata per fare ciò: e poi dirlo, finalmente scrivere.

E questo punto un altro fatto incontrovertibile: crediamo che il romanzo della vita di un autore sia riconoscibile da ogni lettore, univocamente. E il perché è presto detto. Quell’autore ha cercato per una vita intera, lunga o breve, intensa o meno, le parole giuste, il loro ordine e la punteggiatura da usare. Ogni riga porta con sé la tensione di tutta la vita vissuta, letta e scritta. Non esistono cali, sfasature o disarmonie, e se ci sono erano intenzionali. Quell’autore ha speso la sua carriera a cercare il modo di esprimere quel nucleo che dicevamo prima e ora lo offre al lettore. Esso non potrà rimanere indifferente a ciò che gli viene dato. Riconoscerà l’intima potenza e la tortuosità di ogni riga. Percepirà gli anni passati dietro le pagine che legge mentre scorre oltre un punto e virgola. Ed è giusto che sia così perfettamente identificabile il romanzo della vita: affinché non si perda fra gli altri, ma ne diventi il punto d’arrivo, il luogo privilegiato dal quale vedere tutto il resto. E un autore che riesce ad arrivare a quel romanzo riesce anche a rendere più bello ciò che ha fatto prima (e magari farà dopo). Perché ogni parola potrà essere letta insieme al suo fine, al suo scopo, stavolta raggiunto.

Forse la nostra interpretazione sarà romantica, può esser vero. Amen. Che ci possiamo fare. Di fronte al pensiero di un autore che a cavallo cerca la parola giusta non possiamo non diventare un po’ romantici, ce ne scuserete. Ma aggiungiamo due cose. La prima è che ogni autore che rifiuti questa ricerca è un pavido e non merita di essere messo accanto agli altri. È dovere sacro e assoluto di ogni autore trovare il modo di dire ciò che deve dire, così da poterlo regalare al mondo. È un atto solidale. La seconda è un ritorno a Camus. Un personaggio del romanzo passa le sue giornate, in mezzo alla pestilenza infernale, a cercare le parole per il suo romanzo. Scrive e riscrive ossessivamente, legge e rilegge l’incipit, che deve essere perfetto. E scopriamo poi che ha scritto solo quello, tre righe su un’amazzone a cavallo per i giardini del Bois du Boulogne. Forse Camus sapeva che stava scrivendo il suo romanzo della vita e non voleva prendersi troppo sul serio. Un po’ di sana autoironia che apprezziamo.


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