La telefonata

Il telefono squilla nell’oscurità quasi totale della stanza. Mentre stende la mano per bloccare la sveglia, fa cadere il bicchiere d’acqua che aveva poggiato sul comodino la sera prima. Lo spavento lo sveglia quasi del tutto. Nel giro di qualche secondo scopre che sono le due e mezza di notte, che l’acqua è caduta proprio sopra le sue pantofole, che il suono che sente non è una sveglia ma una telefonata.
Dalle fessure dell’avvolgibile penetra qualche piccola chiazza di luce bianca.
Risponde.
«Pronto?» dice, e poi si accorge di non aver controllato chi fosse il mittente.
«Ciao. È sveglio? Spero di sì. Mi dispiacerebbe averla svegliata, ma credo di avere bisogno di aiuto
«Sì.» risponde incerto, cercando di assimilare il resto della frase.
«Sono seduta sul parapetto di un ponte. Sto guardando giù. Il fiume è davvero bellissimo, e credo sia per questo che finora non sono riuscita a saltare. Sono arrivata qui per caso e altrettanto per caso ho deciso di buttarmi giù. Anche se suppongo che non sia successo davvero per caso, e anche se ‘buttarmi giù’ sembra soltanto un’espressione inutilmente cruenta. Comunque prima di saltare ho pensato che forse ho bisogno d’aiuto, per questo ho composto un numero telefonico qualunque e adesso sto chiedendo aiuto ad un perfetto sconosciuto nel bel mezzo della notte, qualcuno che avrebbe tutto il diritto di riattaccarmi in faccia, tornare a dormire e svegliarsi fra poche ore con un mal di testa che gli farà imprecare all’indirizzo della folle suicida che vuole saltare da un ponte proprio alle due e mezza e non conosce nessuno che vorrebbe chiamare più di quanto non voglia chiamare una persona qualunque.»
Rimangono entrambi in silenzio per qualche secondo.
«Il fatto è che non ho nessun vero motivo per essere qui. È vero che sono infelice, ma la vita merita di essere vissuta a prescindere, no? È per questo che gli altri sopravvivono a qualunque cosa, un lutto, un cancro, la perdita di un figlio. Attraversano la disperazione e ritornano. E credo che in realtà non si tratti nemmeno tanto di qualcosa che vale la pena fare, in fin dei conti. Forse è solo quello che siamo programmati a fare, e non ha il minimo senso farlo né fare il contrario. Forse è la semplice inerzia che governa le vite, come il moto di atomi disordinati. Forse la vita non va vissuta come per valorizzarla, ma soltanto osservata per quello che è. Sto dicendo cose folli?».
C’è una nuova pausa. Lei sta per arrendersi, dire qualcosa, mettere giù. Poi lui risponde.
«Non lo so quale sia la cosa giusta. So, però, che tutti abbiamo un istinto di sopravvivenza. E perché venirgli meno senza un vero motivo? Perché non continuare a osservare la vita per poi, magari, decidere di viverla o buttarla via in un secondo momento? Dalla passività si torna indietro, dalla morte no. Forse gli atomi disordinati sono talmente piccoli che nel quadro generale il loro folle moto sta soltanto per una sfumatura di colore particolarmente bella.»
«Gli atomi sono per definizione estremamente piccoli. Il punto è: noi siamo gli atomi o il pittore che li assembla? Ci è concesso vedere il quadro finito? E qualunque sia la risposta, ha importanza? È forse la nostra decisione di descrivere la realtà in un certo modo a validarla esattamente per come la vediamo noi?».
«Anche se ci fosse una verità assoluta, anche se io la conoscessi, cosa ti fa credere che se te la dicessi sarebbe vera? Giusta? Come faresti a fidarti di me?».
«Vorrei una prova. Gli scienziati vogliono sempre una prova.»
«E che tipo di prova potrebbe andare bene?»
«Be’, tu devi soltanto darmi una prova. Poi sono io a decidere se mi basti. Se sia oggettiva.»
«Come fai a sapere la verità su qualcosa se non sai nemmeno quale sia la domanda a cui cerchi una risposta?»
Lei rimane in silenzio per qualche momento. Lui è completamente sveglio.
«Tu vuoi vivere? A queste condizioni. A delle condizioni qualsiasi.»
Lui sente che la risposta istantanea dovrebbe essere sì, sì lo voglio, voglio vivere perché credo che abbia senso o che un regalo come la vita possa perlomeno essere sfruttato in un modo che mi piaccia.
Però non risponde subito, e quando lo fa non usa queste parole.
«Non lo so. Vivrei, credo, a qualunque condizione. Però vita vera, non torpore. Non giorni, settimane, mesi di sonno d’oblio, e ogni tanto dettagli vividi della realtà come le schegge di un bicchiere di vetro che si rompe. Eppure sono qui, che ogni tanto queste schegge le vedo e le apprezzo, e desidero dare tutto per vivere in un mondo di frammenti, senza sicurezze routinarie, ma poi alle tre del mattino mi riaddormento e mi dimentico perfino che quelle schegge ci siano state.»
«Lo so. Credo sia per questo che sono qui. È insopportabile, più che stare una vita senza farsi le domande insopportabili che ti spingono sul confine della vita stessa.»
Lui infila le ciabatte bagnate, si alza, va alla finestra in un leggero sciaguattare.
I piedi iniziano a raffreddarsi quasi subito.
«Mi hai chiamato per avere aiuto, non perché ti spingessi giù più in fretta.»
«Ogni cosa è relativa e possiede una seconda faccia. Chi può dire in che modo mi aiuteresti di più? Salvandomi, trattenendomi nella vita, mostrandomi una terza via. Semplicemente parlandomi di come tutto sommato tutte le esistenze non siano che una manciata di casualità, fatti, opportunità, parole, osservazioni, automatismi.»
«Ma queste cose le sai già.»
«Che importa? Ogni libro che sia mai stato scritto è un banale, eccezionale pleonasmo, ma viene scritto comunque. Ha a che fare col non sentirsi soli.»
«Col chiamare le persone nel bel mezzo della notte per sentire le risposte a domande che figuravano su un test che abbiamo già passato a pieni voti.»
«Sì.»
«Forse dovrei fare come te.»
Lui g
uarda in basso: almeno una ventina di piani fra lui e il suolo. Sarebbero sufficienti.
«E perché?»
«Per sopravvivere o morire insieme. Mi sembra una cosa che non puoi più fare da sola.»
«Ma non è forse la solitudine l’essenza stessa di ogni cosa? Quella che ti spinge a morire perché non hai nessuno, o a sopravvivere per lo stesso motivo, perché non hai nemmeno te stesso?»
«È possibile, ma non ha la minima importanza.»
«Perché no?»
«Perché quando uno si dà una risposta poi non può più dimenticarla. Allora tanto vale che la si seppellisca in modo significativo, nei ricordi o nella tomba, insieme a qualcuno che ha voluto per forza farti la domanda.»
«Mi dispiace».
«A me no. Era da tanto che non capivo qualcuno così bene.»
Una breve pausa.
«Al tre?» 


 

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