“Oggetto quasi” è un libro capitato per caso. Non era previsto, non era in programma, non era nei nostri pensieri: pura casualità.
È capitato così tanto per caso che non abbiamo neanche fatto in tempo a finirlo, prima di scrivere questo articolo. Saramago ci ha comunque aiutato, è stato comprensivo –il suo è un libro di racconti. In ogni caso, partiamo dal primo: non per scelta, ma per necessità. Speriamo che apprezziate la sincerità.
Sedia.
La sedia cominciò a cadere, ad andare giù, a cascare, ma non a rigor di termine, a crollare o, come si dice in portoghese, a debasar.
Dopo le prime due righe, se un lettore troppo impaziente non ci avesse anticipato lo svolgimento di questo racconto, avremmo aspettato l’arrivo di un protagonista. Un personaggio vero, con un viso, un naso, due braccia e due gambe; un uomo o una donna in carne e ossa. Ebbene, se ci fossimo messi in attesa, avremmo forse perso del tempo –sulla qualità di questo tempo, poi, è lecito e sacrosanto discutere-, ma certamente non saremmo stati accontentati. Saramago è coerente, non vuole prendersi gioco di noi –non apertamente, almeno-. E se il suo racconto si chiama Sedia, allora la protagonista è veramente una Sedia. Una Sedia e tutto ciò che ruota attorno a lei: dal suo nome, al suo materiale, a chi la distrugge, alla sua caduta.
E non crediamo neppure che sia importante specificare il tipo di legno di cui sia fatto un mobile tanto piccolo, la sedia, che già nel suo nome portoghese, cadeira, sembra destinato a cadere, o forse è un raggiro linguistico questo latino cadere, ammesso che sia latino, perché dovrebbe esserlo.
Non è tanto importante ma le righe che seguono sono una rassegna di vari tipi di legno che, ipoteticamente, avrebbero potuto rappresentare quello della nostra Sedia. Insomma, José Saramago non vuole rivelarci quale sia il vero punto, che cosa sia importante specificare. Perché, come lui stesso ci dice, non importa. Non c’è una morale, non c’è un punto, non c’è alcuna metafora né un gioco di specchi. È un racconto su una Sedia e ciò che la riguarda. Punto.
Per questo non ve ne parleremo; non sarebbe possibile spiegare la trama o analizzare ciò che c’è dietro questo racconto. Non sarebbe possibile e, soprattutto, sarebbe superfluo. Ciò che si evince immediatamente dal testo, è piuttosto l’incredibile potenza di un’arma, forse, ancora troppo sottovalutata: la scrittura.
Saramago non ha bisogno di protagonisti: ha un foglio di carta; non ha bisogno di una storia: ha le parole; non ha bisogno di sentimenti: ha una penna; non ha bisogno di dialoghi: ha il suo stile; e non ha neanche bisogno dell’ispirazione, dal momento che gli basta una sedia. Per questo parliamo di una vera e propria arma. Basta prendere qualche lettera, unirla fino a formare una parola e poi farla seguire da altre parole, per stupire un lettore. Un racconto, una storia, un romanzo non partono dall’esterno, ma sono dentro la testa di chi scrive, che può farne ciò che vuole. Può decidere di trasformarli in una storia d’amore, di parlare della guerra o di raccontare la caduta di una sedia; non è questo, ciò che importa. L’aspetto rilevante è, invece, il modo in cui ogni autore si prende cura del proprio stile e del proprio personalissimo protagonista –chiunque esso sia.
Per questo abbiamo amato questo racconto: non ci ha fatto scoprire nulla di nuovo, non ci ha svelato niente, non ci ha fatto affezionare a un protagonista, eppure è riuscito a emozionarci. O almeno, così pare, dal momento che ci ha fatto ridere. Potremmo qui discutere su che tipo di emozione sia la risata ma, ancora una volta, non importa: qualcuno piange, qualcuno ride, qualcuno ha un protagonista, altri una storia; altri decidono di raccontare un periodo, il carattere di una persona, il rapporto tra due amici. I più cerebrali scelgono di parlare della vita, quelli che non vogliono pensare prendono un aereo e scrivono la storia di un viaggio; i più pessimisti parlano della morte. E così, esattamente secondo lo stesso procedimento, i più fantasiosi prendono carta e penna e si lasciano ispirare da un oggetto quasi.