Il Kurdistan è una realtà geo-politica estremamente complessa: situata in Medio-Oriente, la regione occupa la parte a nord della Siria e dell’Iraq, è da considerarsi una nazione per via della sua omogeneità etnica (a forte maggioranza curda), ma non uno Stato indipendente, in quanto dal punto vista politico resta legata ai paesi che ospitano i suoi territori. La situazione si è complicata nel 1991, anno in cui, al termine della Guerra del Golfo, la parte Irachena del Kurdistan ha ottenuto un’indipendenza di fatto dal governo centrale. La costituzione irachena si è limitata, nel 2005 a prendere atto delle competenze di Erbil, capitale della regione, senza però mai sancire ufficialmente un distacco tra le due realtà. Altri due elementi sono necessari per completare il quadro: da un lato l’esistenza di zone di confine, reclamate sia dai curdi che dall’Iraq, tra le quali vi è Kirkuk, area particolarmente prosperosa e ricca di petrolio e, dall’altro, l’inizio della lotta contro lo stato islamico nel 2014, una guerra combattuta in gran parte dalle milizie della regione autonoma, con ripercussioni tragiche sulla popolazione.
Nel momento in cui questo conflitto sembrava volgere a termine, Masoud Barzani, presidente del Kurdistan iracheno, ha approfittato della posizione di forza del suo popolo per indire in fretta e furia un referendum, fissato in data 25 ottobre, per ottenere il riconoscimento ufficiale dell’autonomia della regione curda. Sostenuto da Israele, paese che vede di buon occhio una presa di potere dei curdi, a suo avviso in grado di tenere testa agli arabi, il referendum era invece osteggiato da innumerevoli altre realtà politiche. In primis, come è facile intuire, l’Iraq, il quale oltretutto considera illegittimo il governo Barzani e ovviamente la Siria, che in questo modo perderebbe parte dei suoi territori (si è costituito un embrionale stato curdo nel nord della Siria, anche se non è di fatto riconosciuto da nessuno). Si aggiungono alla lista Turchia ed Iran, i cui territori confinano col Kurdistan e ospitano diverse comunità curde ed infine gli stessi Stati Uniti, i quali temono che un’indipendenza curda possa creare instabilità nella regione e favorire un ritorno dello stato islamico.
Come era prevedibile, i risultati del referendum hanno mostrato un forte desiderio di indipendenza (ha vinto il sì, con il 92% dei voti sul 72,6% dei votanti). La dura reazione del governo iracheno non è però tardata: circa una decina di giorni dopo le votazioni, l’Iraq ha raccolto ed inviato le proprie truppe, sostenute anche da milizie iraniane, a Kirkuk, città che è sotto la protezione dei pashmerga, le truppe curde, dal 2014. Kirkuk è stata ripresa in brevissimo tempo, il presidente Masoud Barzani si è dimesso e i curdi hanno accettato di congelare il risultato del referendum in cambio di un cessate il fuoco.
La situazione però è tutt’altro che risolta e lascia innumerevoli porte ancora aperte. Non solo c’è l’incognita di come reagiranno i curdi a questa oppressione, ma anche un ruolo degli Stati Uniti ancora da definirsi. Da sempre alleati dei curdi nella lotta allo stato islamico, gli USA hanno invece osteggiato il referendum, accettato l’uso della forza da parte dell’Iraq per la riconquista di Kirkuk e, contemporaneamente, permesso all’Iran (nemico acerrimo degli americani) di partecipare a questa operazione, ponendo le premesse per soddisfare le proprie mire espansionistiche nella zona. Inoltre, ad approfittare della debolezza dei curdi potrebbe sopraggiungere anche lo stato islamico.