I silenzi colorati. Moravia dipinge Van Gogh.

Tra il 30 marzo e il 29 luglio del 1990, al Rijksmuseum di Amsterdam, viene allestita una mostra per il centenario della morte di Van Gogh. E, tra il 30 marzo e il 29 luglio del 1990, Alberto Moravia è tra i più assidui e appassionati visitatori di questa mostra, favorendo l’incontro tra due artisti che, in maniera diversa -ma alla fine non così tanto- hanno segnato un’epoca. Gli Indifferenti La notte stellata, insieme, nella stessa stanza; avremmo tanto voluto esserci.

Moravia, dopo aver visto i quadri di Van Gogh, decide di onorarli con la sua penna, l’unico panegirico che ha realmente a disposizione. E, nello stesso 1990, scrive un articolo. Su Van Gogh, sui suoi quadri, sulle sensazioni -e non sentimenti-, sui colori, sul silenzio.

Alla mostra di Van Gogh, i visitatori in folla ordinata fanno la fila lungo le pareti alle quali sono appesi i quadri. Ciascun visitatore ha una sosta di un quarto di minuto, trenta secondi, magari un minuto, e poi va avanti, sloggiato dagli altri che gli stanno alle spalle. 

Questo l’inizio: i visitatori. Ci siamo chiesti per quale motivo Moravia abbia deciso di iniziare proprio da loro, perché abbia sentito il bisogno di dedicare queste prime righe alla controparte passiva del discorso, del tema, dell’arte. Perché, avendo a disposizione la sua penna e il pennello di Van Gogh, abbia usato i pensieri di banalissimi spettatori come motore del proprio discorso.

Per porci questa domanda abbiamo impiegato tre secondi, forse quattro: certamente un arco di tempo minore rispetto a quello che ogni visitatore, tra il 30 marzo e il 29 luglio del 1990, ha dedicato all’osservazione dei quadri di Van Gogh. In ogni caso, Moravia ci ha fornito immediatamente la risposta, facendoci sentire sciocchi, superficiali, e anche un po’ in colpa.

Viene fatto, a questa riflessione, di domandarsi che cosa i visitatori “realmente sentono”. La risposta è che “sentono” quello che “sentono” i critici e i conoscitori più raffinati; soltanto non hanno la capacità di esprimere in parole scritte o parlate quello che “sentono”. 

Un semplice visitatore innalzato al ruolo di critico d’arte, quindi. Un ingenuo e ignorante osservatore che riesce a percepire esattamente le stesse emozioni di chi ha studiato per anni e lo fa di mestiere; cambia solo la comunicabilità. Uno si limita a sentire, l’altro dopo aver sentito si sente in diritto -e in dovere- di spiegare. Questo sembrerebbe essere il punto di vista di Moravia. In realtà, andando avanti, ci si rende conto che non è il pubblico, il protagonista di questo articolo. Quello che l’autore vuole dirci non ha niente a che vedere con la ricezione delle persone, non dipende da loro: le sensazioni che si provano guardando un quadro di Van Gogh non riguardano la sensibilità di un eventuale osservatore. Sono tutte dentro al quadro: chiare, tonde, forti, intense, profonde, squisitamente obiettive.

La cosa più importante è che l’arte “agisca”. Essa è venuta al mondo per “agire”, cioè per comunicare con gli uomini; che poi questi stessi uomini sappiano o meno comunicarsi l’un l’altro ciò che hanno sentito, poco importa. 

Poco importa perché tanto, questi stessi uomini, non hanno scampo: sentono esattamente ciò che sentono tutti gli altri, ossia ciò che Van Gogh ha voluto che sentissero. Poi potranno non ammetterlo, nasconderlo a loro stessi e agli altri, non riuscire a comunicarlo: poco importa. Ognuno di loro sentirà l’artista e i suoi silenzi colorati. 

Dopo aver omaggiato, deriso, forse banalizzato oppure onorato gli osservatori, Moravia passa ai quadri. Il primo è il Caffè notturno. 

Luogo di perdizione muta e rassegnata, il Caffè notturno avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni di Van Gogh, un bordello. Ma far posare le modelle sarebbe costato all’artista troppi soldi -soldi che, come ognuno di voi saprà, non aveva-; e poi, in fondo, le “terribili passioni” non sono solo quelle della carne. Anzi, guardando questo quadro, si ha la netta impressione che le più terribili siano, piuttosto, proprio quelle del caffè.

La Notte stellata, il secondo quadro. Ci limiteremo a riportare l’immagine: Moravia ne parla divinamente, noi riusciremmo, forse, a parafrasare un discorso perfettamente costruito rendendolo disordinato, poco chiaro e assolutamente non all’altezza. Del quadro e dell’articolo.

Il cipresso, in primissimo piano sulla sinistra: lo ha notato Moravia, lo abbiamo sempre ammirato anche noi. Un brillantino, forse l’elemento più tristemente luminoso di tutto il quadro.

E ancora, l’ Autoritratto, il Seminatore. Tutti i dipinti più famosi di Van Gogh, racchiusi in un testo di Alberto Moravia: questo connubio continua a emozionarci. Ma l’aspetto più bello di questo piccolissimo, stretto e veloce articolo di Moravia, è che non bisogna conoscere Van Gogh, per leggerlo. Non bisogna essere conoscitori, esperti, né tantomeno amanti dell’arte. Non è necessario aver letto dei libri o aver visto le opere. Anzi. Chi ama e conosce l’arte, rischia di rimanere deluso dalla brevitas con cui Moravia dipinge Van Gogh. Cinque righe, qualche parola, moltissime associazioni. Colori, immaginazione, sensazioni. Niente di più. Tutto racchiuso in qualche bella frase.

Ci siamo rimasti male, all’inizio. Ma la verità è che Van Gogh avrebbe apprezzato. Perché quello che Moravia gli regala è molto più che la semplice descrizione stilistica dell’opera, lo studio della luce, un’asettica, distaccata, complessa -seppur necessaria- analisi di che cosa ci sia dentro, dietro e davanti al quadro. Moravia dona a Van Gogh il dono dell’obiettività delle emozioni. Non importa chi si trovi davanti al suo quadro, non importa che cosa abbia fatto prima, mangiato a colazione, se sia stato costretto dalla moglie a visitare quel museo o se sia laureato in storia dell’arte. Uno studente, un professore, un disoccupato, un intellettuale e un ignorante, di fronte ai quadri di Van Gogh, proveranno tutti, sistematicamente la stessa sensazione: l’insolita violenza di un colorato silenzio. 

 



 

 

 

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