Clinica dell’abbandono (Einaudi, 2003) è un’opera della poetessa Alda Merini – classe 1931, milanese, è una delle più celebri della letteratura italiana moderna, la cui vita travagliata si accompagna alla bellezza che trapela dalle sue raccolte, fra cui si annoverano La presenza di Orfeo (1953), La Terra Santa (1984), Vuoto d’amore (1991), La pazza della porta accanto (1995), L’anima innamorata (2000), Superba è la notte (2000), Oggi come ieri (2003), Poema della Croce (2004), Lettere al dottor G. (2008) e I poeti lavorano di notte (2009).
Questa raccolta è divisa in due parti: la prima è denominata “Poemi Eroici” e raccoglie versi composti a macchina e a mano verso la fine degli anni Novanta, mentre la seconda è denominata proprio “Clinica dell’abbandono” e raccoglie versi circoscritti alla tipologia delle poesie dettate (modalità di composizione che la Merini utilizzò nell’ultima fase della sua produzione), alcuni dei quali destinate a varie figure illustri come Roberto Dossi, Alberto Casiraghi, Manuel Serantes e Vincenzo Mollica.
Il tema preponderante all’interno della maggior parte dei testi è quello dell’amore: un amore sofferto, desiderato, rincorso, trattenuto, voluto ancora e ancora di più ma non ricevuto. Un amore declinato nei diversi incontri con gli amanti che erano mal disposti ad una relazione che non fosse a breve termine. Un amore che assume i contorni della passione carnale, dipinto con parole crude ed intense, che si riferiscono allo struggimento amoroso da una parte e che si esemplificano in gesti concreti dall’altra: così si parla dell’«ardore/del sentimento», ma anche di corpi, di baci e di mani fino a scendere nella passionalità più estrema («Il suo sperma bevuto dalle mie labbra») o quasi nella blasfemia («Avevamo con noi i nostri viveri/per molti anni ancora/i baci e le speranze/e non credevamo più in Dio/perché eravamo felici»).
L’amore provato dalla poetessa è dilaniante nella sua intensità, e lo mostra con un lessico e con similitudini dure, che colpiscono il lettore agendo come un bisturi (perché si tratta pur sempre di emozioni umane in cui ci si può immedesimare): «E ti ho amato fino a morirne/dentro l’urna di un castello di vetro/che nessuno conosce».
La medesima tendenza si riscontra nella descrizione che fa di sé la poetessa, vittima di un sentimento irraggiungibile: «Io ormai vecchia/come una palla spenta, sospinta via da ogni/religione, buttata nella spazzatura di/tutti i tempi, io smemorata e sudicia/donna che non vede gli argini dell’amore,/si vieta le carezze e i tormenti e/continua a cantare l’alleluia di una cosa/che non ha mai avuto principio».
Vi sono anche, qua e là, descrizioni di luoghi, come quella dei Navigli milanesi di sera, che si caratterizza innanzitutto per la totale mancanza di punteggiatura, che conferisce al testo un ritmo molto concitato, dando l’effetto di un’inquadratura cinematografica a velocità aumentata: le case senza dimora che trattengono ricordi felici in un quadro dove il tempo sembra fermarsi, fotografando quel periodo di giovinezza in cui si ha l’illusione che tutto sia possibile.
Nella poesia L’altra verità, dedicata a Simona e Giulia, si accenna per la prima volta al manicomio in cui la Merini era rinchiusa, denominandolo come «inutile prigione» dove nacque un «amore infelice» tra lei e un suo compagno, un «poveraccio senza santità». Da questo legame, all’apparenza non dei migliori, era nata la figlia, e così conclude che «nessuno in manicomio ha mai dato un bacio/se non al muro che lo opprimeva/e questo vuol dire che la santità/è di tutti, come di tutti è l’amore». Ecco quindi la potenza della poesia della Merini che, con commovente assertività, dimostra come anche una situazione disagiata, dove fatica ad esserci la speranza e dove le persone sembrano essere relegate e circoscritte al loro ruolo di malati, possa generare, alla fine, qualcosa di bello.
Clinica dell’abbandono, A. Merini, G. Rosadini (a cura di), Einaudi 2003