Viveva, in un piccolo angolo di Almerìa, un anziano orologiaio.
Quale fosse il suo passato e da dove venisse, nessuno lo sapeva con certezza.
La sua pelle bruna lasciava presagire che la sua terra d’origine fossero le dune del deserto del Sahara o le sabbie ambrate dell’Africa del Sud.
Qualcuno amava pensare che fosse figlio di un marinaio che aveva trovato rifugio, durante una notte di tempesta, in un piccolo porto andaluso e, stanco, la pelle sferzata dal vento e dalle onde, avesse cercato la calda accoglienza di qualche ragazza spagnola.
Nessuno sapeva da quanto tempo abitasse lì; nessuno ricordava il momento in cui aveva fatto la sua comparsa.
Era un uomo solitario e silenzioso.
Non frequentava i locali del posto e non aveva amici. Nessuno aveva mai parlato d’altro con lui, se non di orologi, che erano la sua grande passione.
Nessuno aveva mai parlato con lui, senza essere andato appositamente a cercarlo.
La sua bottega era piccola e vecchia, con una tenda verde a ripararla d’estate e un’insegna su cui a stento si leggeva “riparazioni orologi”.
Non appena entravi, venivi investito da un odore di polvere e sale, sale del mare; l’odore che ha la nostalgia di un ricordo.
Quel profumo ti investiva completamente, tanto che, uscendo, ti pareva di sentirlo ancora aggrappato ai tuoi vestiti, restio a lasciarti andare.
C’era qualcosa di misterioso nei due occhi neri; una profondità che pareva trafiggerti.
Ti sentivi scoperto e indifeso, trovandoti davanti a quello sguardo, che sembrava riuscire a cogliere i segreti più nascosti di ogni animo; quelli che – si sa- tutti celiamo e cerchiamo di non riportare a galla.
Erano freddi, gelidi come una notte senza stelle, e altrettanto cupi.
Non erano molti i visitatori di quella piccola stanza buia, al pianterreno di un edificio che si sgretolava in minuscoli granelli di vernice bianca, quando la pioggia cadeva copiosa e il vento soffiava impetuoso.
Alcuni erano in soggezione davanti a quello sguardo indagatore, altri provavano un senso di naturale e istintivo timore.
Alcuni non portavano più orologi da polso, tutto qua.
Ad ogni modo, nessuno sembrava riuscire ad instaurare con lui una sincera amicizia.
Era un gelido pomeriggio invernale – inusuale per quell’angolo di mondo – quando Gonzalo Diaz, otto anni, si presentò alla porta di quel traballante sgabuzzino.
Entrò nell’antro, le manine congelate e il naso rosso, pronunciando:
‘Aiutami, ti prego, questo mio cuore funziona troppo’.
‘Aggiusto orologi io, perché sei qua?’.
‘Non è un po’ la stessa cosa?’.
Aveva atteso, seduto su una sedia, piuttosto alta per il suo corpicino piccolo, le gambe penzoloni, che quel signore si decidesse ad aiutarlo.
Questo mio cuore funziona troppo; è sempre o troppo felice, o troppo triste.
A volte penso che scoppierà’.
L’orologiaio aveva deciso di provare davvero a capire il meccanismo che regolava quel buffo sferragliare.
Si trovava davanti ad una combinazione strana e particolare, nuova.
Si sedevano uno di fronte all’altro, il lungo e traballante tavolo in mogano scuro a separarli, e una tazza di cioccolata calda e fumante tra le mani.
Gonzalo raccontava, non la smetteva mai di parlare, finché, un pomeriggio speciale, fu l’anziano a incominciare.
Gli raccontò tutta la sua storia, che nessuno, a parte Gonzalo, avrebbe mai conosciuto.
Gli parlò di quanto era stato crudele con lui il mare, che lo aveva travolto e portato via dall’unica donna che aveva mai amato.
Il mare, il Mediterraneo, l’aveva presa con sé, ancora giovane e bella. L’aveva fatta scivolare tra le sue braccia, mentre invano il giovane – era, infatti, diventato improvvisamente vecchio quel giorno – tentava di riprenderla.
Niente aveva più avuto senso da quel giorno, se non gli orologi, la frenesia spasmodica di aggiustare il tempo.
Non era stato lui a riparare il cuore di quel bambino, ma era stato Gonzalo a ridare un senso alla sua vita, quasi del tutto trascorsa.
– ‘Ama incondizionatamente e potrai dire di aver sempre dato il meglio di te stesso, perché quando ami puoi sbagliare, puoi far del male, ma non c’è nulla di premeditato in questo.
Quando ami, trovi il coraggio di chiedere scusa e la voglia di rimediare.
E se soffri troppo, è perché il tuo cuore è innocente. Impara: la sofferenza può aiutarti, può farti vedere la bellezza dei gesti più piccoli.
È la tristezza che, più della felicità, ti fa apprezzare ciò che ti circonda, ma questa non deve mai avere la meglio sul tuo sorriso’.
Racconto scritto da Valentina Cesarino
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