Un sentimento amoroso quanto può essere potente? Quanto può spingere gli uomini a sognare, bramare e dunque creare affinché tale palpitazione possa restare viva ed eterna? Si pensi a quante illustre figure hanno vissuto e agito in nome di questo deturpante e incontrollabile sentimento. Troviamo tracce della sua ricerca, indagine e desiderio di conferirgli una giusta dignità da prima ancora che si iniziasse a calcolare il tempo, prima ancora della nascita di Cristo.
Rammentate le parole della più celebrata poetessa arcaica? Saffo, tra il VII e VI secolo a. C (periodo in cui visse) si chiedeva quale fosse la cosa più importante e bella per un essere umano e si rispose formulando questi versi:
“Chi un esercito di cavalieri, chi di fanti e chi di navi sulla terra nera dice essere la cosa più bella, io, invece, colui che uno ama” (Saffo, Frammento 16).
Apriamo dunque un nuovo e felicissimo tema partendo proprio dalla nota priamel con cui la poetessa di Lesbo comincia l’ode dedicata alla sua amata, Anattoria. Per mezzo di questo preambolo crea una gerarchia di valori comunemente accettati dall’epoca – quelli del mondo omerico – per poi rigettarli a favore del suo ideale, innalzando così l’oggetto del proprio amore.
Cosa c’entra questo sentimento con l’arte? Un’antica fonte conferitaci dalla “Naturalis Historia” di Plinio il Vecchio, autore latino del I secolo d. C, informa di come l’origine dell’arte del ritrarre possa esser nata dalla necessità di ‘fissare per sempre’ una persona cara. Plinio riconduce alla nascita di questo genere artistico la storia di un sentimento amoroso tra due giovani, sostenuto dal padre di lei: il vasaio Butade di Corinto dovette l’invenzione della tecnica dell’argilla alla figlia, che rattristata per l’imminente partenza dell’amato, trovò un modo per poter comunque osservare il suo volto durante il lungo periodo di assenza; così circondò con una linea l’ombra del suo viso proiettata sul muro dalla luce della lampada e a questo punto intervenne il padre, che applicò l’argilla sullo schizzo e ne fece un rilievo da lasciar indurire al fuoco insieme al resto dei suoi vasi, dopo averlo fatto seccare. È così che nacque il ritratto, da un profilo tratto dall’immagine dal vivo, da una semplice ombra riportata.
Questa storia piacque molto e fu addirittura proseguita nel corso dei secoli. Uno di questi continuatori fu André Félibien che nella seconda metà del Seicento affermò che l’amore sia il grande maestro delle invenzioni, “fu colui che insegnò ad una giovane il segreto di disegnare”. Pochi anni più tardi il mito pliniano catturò l’attenzione anche di Charles Perrault, che con esso volle spiegare come l’origine del ritratto possa confondersi con l’origine della pittura stessa e conferisce quindi a questo genere un rango primordiale. Inoltre l’autore presentò l’invenzione del ritratto stesso come una risposta ad un’esigenza memoriale. Perrault sottolineava come il ritratto sia il segno di un’assenza, un’espressione nostalgica nata da una tensione tragica: l’amore, invocato dalla disperazione, fece vedere alla giovane l’ombra del suo amante e le diede l’ispirazione di fissare quell’immagine guidando la sua mano nel tracciare il contorno di colui che presto scomparve.
“Se almeno mi restasse di quel viso affascinante
qualche tratto imperfetto, qualche vaga immagine,
Quest’odiosa partenza, diceva in cuor suo,
Per quanto crudele, avrebbe meno vigore”.
(C. Perrault, La Peinture).
Vediamo ora quali artisti si sono appellati a tale principio realizzando ritratti, a cavallo tra la fine del Quattrocento e il primo decennio del Cinquecento, nati da un sentimento da preservare, glorificare ed eternare ai posteri.
Partiamo da un dipinto che ha come fondamento il topos del ‘ritratto parlante’: un ritratto può essere talmente perfetto da indurre l’osservatore a conversare con esso, come se il quadro godesse di vita propria? Raffaello realizza la fedelissima effige dell’autore del Cortegiano e di altre numerose opere in latino e volgare. Gli occhi chiari e limpidi di Baldassarre Castiglione sono l’unico contrasto ai bellissimi toni bruni sui cui è giocata tutta la tela. Con essa il poeta desiderava che la moglie Ippolita e il piccolo Camillo, il figlio infante, potessero patir meno la sua assenza, quando era costretto ad allontanarsi per questioni diplomatiche. In un’elegia scritta dall’autore stesso, Castiglione immagina il momento in cui la moglie sorride affettuosamente al quadro, con cui addirittura parla e scherza come se potesse risponderle.
La volontà di manifestare un sentimento da parte sia del poeta che dall’artista, si riscontra anche in un altro ritratto raffaellesco che ha come soggetto una donna amata da Castiglione precedentemente: Elisabetta Gonzaga. Il letterato avrebbe nascosto dietro ad un grande e bellissimo specchio – che si poteva aprire e chiudere da chi conosceva l’artificio – il ritratto di colei che amava. Specchiandosi il Castiglione otteneva un ‘ritratto doppio’ (la propria immagine riflessa e quella della donna nascosta). Si generava così un legame segreto che resta connesso al tema di voler legittimare ed in qualche modo anche tutelare un sentimento personale.
Nello stesso campo rientra l’ossessione petrarchesca di poter dar vita alla sua amata: Petrarca aveva ritratto la sua donna-angelo in più occasioni (sonetti 77 e 78), ma solo letteralmente e dunque bramava l’idea di vederla rappresentata, viva ai suoi occhi. Sappiamo che un bellissimo ritratto di Laura era stato realizzato da Simone Martini (oggi perduto) che era riuscito ad interpretare perfettamente il sentimento del poeta. Dalla seconda metà del Quattrocento in poi si avvia una vera e propria ricerca dei ritratti di Laura, che fece nascere il mito di questo ritratto. Si ritenne che un dipinto di Giorgione fosse l’unico ritratto della donna preservatoci, per via della presenza del lauro che contorna la figura, ma in realtà è più plausibile che si tratti di un’immagine allegorica.
Infine come ultimo esempio di ritratto che omaggia un sentimento d’amore, è quello la cui storia e il cui artista si ricollega all’immagine di copertina: il ritratto di Giuliano de Medici eseguito da Botticelli. Si tratta di quadro commemorativo del defunto, desumibile dagli occhi abbassati del soggetto. Botticelli rappresenta Giuliano davanti ad una finestra con un’anta aperta ed una chiusa, probabile simbolo di passaggio tra la vita e la morte ed in più ha aggiunto in primo piano una colomba appoggiata su un ramo. A quell’epoca dominava la tradizione, tramandata dagli antichi, che le colombe dopo la morte del proprio compagno non si accoppino più e che, inconsolabili, cerchino soltanto rami secchi e privi di foglie; in questo senso la colomba potrebbe venire interpretata come simbolo dell’inconsolabilità di Giuliano per la morte del suo “cavalleresco amore”, Simonetta Vespucci, morta nel 1476 all’età di soli 18 anni. L’elegantissimo volto di Simonetta, la più bella donna del Rinascimento, è stato immortalato molte volte dall’artista e solo qui la sua presenza viene evocata col fine di tramandare ai posteri un amore che non ha avuto modo di crescere.
FONTI
E. Pommier, “Il ritratto. Storie e teorie dal Rinascimento all’Età dei Lumi”, Einaudi, Torino