La Vita nova, ma vita di chi?
Dante concepisce la Vita nova come un prosimetro, un’opera composta da versi e da prosa. Trentuno sono le liriche, collegate da prose che commentano le occasioni per le quali e nelle quali quei versi sono stati creati. I brani prosastici si incaricano di spingere avanti la narrazione, colmando le pause liriche e le sospensioni delle rime.
In breve, è la storia di una penosa malattia d’amore che guarisce come nuova consapevolezza del sé e del sentimento. Dante si innamora di Beatrice, ma, per proteggere il suo amore dalle maldicenze, com’era costume, finge invaghimento per donne diverse. Questo, però, innesca lo sdegno di Beatrice, che nega a Dante il saluto, per lui fonte di felicità e salvezza. Il castigo è quanto di peggio potesse capitare a un poeta del Trecento: Dante ne soffre moltissimo, e viene per questo schernito da alcune donne. Segue in Dante la consapevolezza (e l’enunciazione) di una nuova stagione del suo amore, un amore che si contenta dell’elogio dell’amata. E infatti la morte di Beatrice, che sopraggiunge subito dopo, non è l’epilogo della storia, solo una sua svolta. Dopo un turbamento provocato in Dante dall’interesse per una nuova donna, il Poeta torna alla contemplazione di Beatrice, ora assunta in Paradiso. Diventa possibile per il Poeta la lode della volta celeste.
Dante aggira un problema grande dei poeti di fine Duecento: l’amore per una donna può trovare pacifica convivenza (nel cuore come nel verso) con l’amore per Dio? Il poeta racconta un’esperienza mistica: per approssimazione fisica e spirituale, lodare Beatrice consente al poeta di osannare Dio e di guardare la via della salvazione. Dante muta la concezione del rapporto d’amore, conducendolo ad una massima spiritualizzazione.
Come ogni scritto dantesco, anche la Vita Nova è sedimentazione complessa di sensi e terreno di esercizio per raffinati critici.
Per esempio, questo libello è stato indicato con una formula suggestiva, quella di Legenda sanctae Beatricis. Come un’agiografia, l’opera può essere letta come un itinerario cristiano che va dall’amore alla caritas, nel quale il ruolo essenziale è ricoperto, appunto, da Beatrice. Questa è una linea critica molto battuta.
Ce n’è una seconda; anzi ce n’è anche una terza. O meglio, c’è una linea interpretativa che si snoda su due versanti difficili (e complementari). La Vita Nova è un’autobiografia?
Étienne Gilson sembra dirci: è un’autobiografia, ma è poetica: aspettatevi accorciamenti e dilatazioni secondo il gusto dell’autore. Maria Corti, nello specifico, si è occupata del rapporto fra memoria e vita vissuta, avvertendo che “il libello non è trascritto da un’autentica memoria esistenziale, ma da una memoria che si innesta sulla immaginazione e sulla poetica dell’autore”.
I critici sembrano metterci in guardia dalla tentazione di leggere in chiave solamente autobiografica i vari episodi. Non perché quella chiave di lettura sia assente, no. Ma perché non è la sola.
Perché la lettura autobiografica ha senso solo se completata da un secondo assunto: è un’autobiografia, ma è l’autobiografia di un poeta. E qui siamo vicinissimi alla soluzione. Se per Dante c’è totale assimilazione tra poesia (d’amore) e storia d’amore (per Beatrice), ecco allora che la storia dell’amore per Beatrice è anche la storia della poesia di Dante.
Ne deriva una conseguenza semplice: la poesia diventa funzionale all’amore per Beatrice e viceversa. Dante condurrà la sua autobiografia anche come storia della sua poetica.
Una autobiografia che si comprende solo quando si afferrano le reali corrispondenze tra il percorso sentimentale e il percorso poetico, quando si comprende che la svolta del sentire poetico chiama con sé un cambiamento nel modo di nutrire l’amore.
Da un lato, c’è la regia di poeta che manipola il ricordo e dall’altro c’è la regia di uomo innamorato che sofistica i versi.
Fonte 1: Stefano Carrai (a cura di) Dante Alighieri. Vita Nova, Milano, BUR, 2009