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Pino Pelosi e il delitto Pasolini: verità l’è morta?

Lo scorso 20 luglio 2017 è morto Giuseppe Pelosi. Da ragazzo lo chiamavano Pino “la rana”. Per via degli occhi grandi, gonfi – di pianto o di botte? – che aveva quando lo interrogarono, il 2 novembre 1975, il giorno in cui fu arrestato con l’accusa di avere ucciso Pier Paolo Pasolini. Nella sua prima confessione raccontò di essere stato avvicinato dal poeta e regista friulano a Roma, di aver concordato con lui un prezzo e poi di essere salito sulla sua auto. La stessa con la quale scappò dal lido di Ostia e sulla quale fu fermato prima che fosse scoperto il corpo, accanto al quale fu trovato un anello di Pelosi, regalo dell’ergastolano Giuseppe Mastini, alias Johnny lo Zingaro.

Pelosi asserì di aver ucciso il giornalista e scrittore con un bastone trovato per caso, per difendersi, dopo che Pasolini avrebbe preteso con eccessiva insistenza favori sessuali, facendogli temere per la sua incolumità. Pelosi allora aveva 17 anni, era un ragazzino efebico e gracile.
Molti sostengono che con la sua morte sia inesorabilmente calato il silenzio su uno dei più grandi misteri italiani, che ha coinvolto la figura di intellettuale più affascinante e controversa – e per molti versi, decisiva – di quella parte del Novecento.
Sulla morte di PPP rimangono infatti molte ombre. La più vistosa è come abbia fatto un ragazzino debole, con il primo oggetto passatogli per le mani, a martoriare il corpo di un uomo indubbiamente più prestante di lui. Dubbi talmente consistenti che anche la condanna in primo grado di Pelosi per i fatti di quella notte è in “concorso in omicidio”. Con chi, rimane da capire.

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Pino Pelosi a diciassette anni

Una teoria l’ha fornita lo stesso Pelosi, in una delle ultime ritrattazioni della propria confessione, nel 2005, pochi anni prima di riacquisire la libertà. Disse di non essere stato solo, quella notte, bensì in compagnia di altri tre uomini. Il caso fu riaperto ma richiuso in fretta e furia, perché il reo confesso era ritenuto non credibile. Dopo il 2009, riacquisita la libertà, e nel 2011, quando scrisse la sua autobiografia, Pelosi ammise  di essere innocente, e di essersi assunto la responsabilità per via, riporta Repubblica, di “minacce di morte, per sè e per i genitori, ricevute da uno degli aggressori di quella notte”. Per questo avrebbe, dice, aspettato la morte di tutti i suoi cari.

Ma chi sarebbero questi quattro uomini? Pelosi ricorda due dettagli: che “avevano le catene”, compatibili, pare, con le ferite trovate sul corpo di Pasolini  e visibili dal 2005, quando furono pubblicate le foto scattate all’obitorio, che portano anche segni di lapidazione. Il secondo dettaglio è “l’accento siciliano” di due di loro. Il quarto potrebbe essere proprio l’amico Jhonny, che però Pelosi scagionò nel 2009. Sull’identità dei due siciliani, non ha dubbi Franco Buffoni, poeta e saggista. Riferisce che anche un uomo che abitava nei pressi  avrebbe visto tre o quattro uomini colpire con le catene Pasolini, gridandogli “arruso, comunista”, mentre lui disperato gridava “basta” e “mamma”. Questo testimone non è più stato interrogato. Buffoni dà poi un nome ai due siciliani: sarebbero i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, noti agli spacciatori romani come Braciola e Bracioletta ed esponenti di spicco del MSI romano, di evidenti interessi neofascisti. I due fratelli sarebbero arrivati in moto, insieme ad altri, e sulla moto si sarebbero poi dileguati. Se Pelosi fosse lì o meno, e se fosse consapevole. le versioni discordano. Negli ultimi anni, Pelosi disse di non essere stato nemmeno presente alla morte di PPP.

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Il Corriere della Sera del 2 novembre ’75

Buffoni ha poi una risposta anche sull’altro interrogativo che resta senza risposta: perché? Indubbiamente PPP è stato un intellettuale scomodo, e inviso a molti (si pensi al celebre “io so..”) e la sua militanza politica – oltre che la sua vita personale – lo rendeva oggetto sufficiente dell’odio dei neofascisti. Secondo Buffoni, però, c’è di più, e per sapere cosa bisogna guardare in un’altra opera letteraria. L’ultimo, incompiuto, libro di Paolini: “Petrolio”. Il poeta cita un giudice, Lorenzo Callia, che spiega che fonte di Petrolio è un libro “Cefis, l’altra faccia dell’onorato presidente”, fatto ritirare dalla circolazione. In Petrolio il personaggio si chiama Troya, ma sarebbe Enrico Mattei. La morte del dirigente Eni è un’altra pagina nera della storia italiana che, stando alle fonti di Buffoni, sarebbe da ricondurre a una “questione nostra, italiana,[..] saldatura tra istanze di potere politico-mafioso e certe disinvolture “resistenziali” per le soluzioni drastiche”, in altre parole, “Mafia-ENI-Dc”. Pasolini stava per scrivere, in un libro o sul Corriere, ciò che lui sapeva, toccando interessi molto importanti. Per questo sarebbe stato ucciso.

Se tutto ciò sarà un giorno dimostrabile non è ancora dato sapere, ma Buffoni è certo che “la verità non è morta con Pelosi”. E non è l’unico a pensarla così. All’indomani della sua morte, ha parlato anche l’avvocato Alessandro Olivieri, che per alcuni anni fu difensore di Pelosi e lo aiutò a scrivere l’autobiografia. L’avvocato, in un’intervista rilasciata alla DIRE è sibillino: “Dvo dire la verità: una parte delle informazioni non sono state date e sono gelosamente custodite in una cassetta di sicurezza, perché sono troppo forti. Lui non se l’è mai sentita di diffonderle per paura che qualcuno potesse toccare lui o i suoi familiari. E non nascondo che la stessa paura potrei averla io, perché è vero che la firma sul libro e i fogli che ho sono a firma di Giuseppe Pelosi, ma è anche vero che avendoli io ho sempre il timore che qualcuno possa venire a bussarmi alla porta. Quindi esiste una verità, la verità non è morta con Pino Pelosi. Ma è talmente pesante e difficile da poter raccontare con semplicità. Vedremo.”.

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