“Aspettando Godot“, testo rappresentante del “teatro dell’assurdo” e pubblicato da Samuel Beckett nel 1952, è tornato sulle scene a Milano al teatro Elfo Puccini, dal 30 gennaio al 4 febbraio. La regia di Alessandro Averone e la sublime prestazione del cast di attori (Marco Quaglia, Gabriele Sabatini, Mauro Santopietro, Antonio Tintis, Francesco Tintis) hanno contribuito alla realizzazione di uno spettacolo fuori dal tempo e dallo spazio, così immobile ed eternamente statico, ma così vivo e pieno di sfumature.
“Aspettando Godot” è lo spettacolo dell’immobilità, dell’attimo che corre senza lasciare traccia. Due personaggi, Vladimiro ed Estragone, aspettano, per un tempo indeterminato, un certo Godot: qualcuno, qualcosa, un’entità indefinita. Godot viene frequentemente evocato, ma mai rappresentato: l’attesa è, infatti, vana. Nessuna trama, nessun nodo drammatico; la scena è retta soltanto da un fitto dialogo tra i personaggi. All’assenza di trama si aggiunge l’assenza di contenuto dei dialoghi, la fugacità delle parole. I due personaggi tentano di evadere dalla realtà in cui sono immersi, inventano stratagemmi per passare il tempo: così giocano, cantano, discutono, litigano, dopo poco fanno pace.
Qualunque tentativo di fuga è, però, inutile: l’attesa è talmente logorante da vanificare qualunque azione, compreso il suicidio tanto bramato. Non è consentita nessuna distrazione, neppure l’avvento incombente di Pozzo e Lucky, il padrone e il servo. Nei due atti nulla cambia, ad eccezione dell’albero, che ha le foglie, e di Pozzo e Lucky, che appaiono stanchi, apatici. La tragedia in cui gli spettatori si trovano immersi è trasversale; anche il bambino è vittima di una società degradata e priva di obiettivi. Averone sostiene, riferendosi al bambino:
Il suo intento ritengo fosse quello di introdurre un personaggio che rappresentasse una fascia d’età molto giovane, in questo modo il pubblico sarebbe stato obbligato a interrogarsi su cosa di fatto quest’ultima generazione si dovesse aspettare per il proprio futuro, viste le condizioni precarie in cui era ridotta la precedente.
La messa in scena di Averone è essenziale, estremamente fedele al testo di Beckett. L’imprecisa identificazione spazio-temporale, evocata dal palco colorato e sfumato, accentua l’idea di indefinito che permane nell’intera opera. Vladimiro ed Estragone, i clown-barboni, sono vittime della prigione in cui sono immersi, dell’aridità di una società apatica: la smemoratezza di Estragone è sintomo di una vita che passa senza lasciare traccia. La complementarietà dei personaggi è esaltata anche dai costumi: il rosso di Vladimiro è complementare al verde prevalente di Estragone; allo stesso modo il bianco della giacca di Lucky è complementare al nero di quella di Pozzo. Nonostante Beckett abbia ideato l’opera per attori di età avanzata, Averone sceglie protagonisti più giovani. Spiega infatti:
L’opera teatrale è stata scritta nel secondo dopoguerra e, per quanto il contesto storico fosse ben diverso da quello attuale, io noto che ci sono alcune similitudini con la mia generazione, quella cioè compresa tra i 35 e i 40 anni, in cui la situazione sociale ed economica rischiano l’impossibilità purtroppo di trovare dei punti di riferimento.
Vladimiro ed Estragone impersonano l’universo dei rapporti umani: di fronte alla confusione del mondo, ritrovano, continuamente, conforto nella comunicazione con l’altro. Non potendo raggiungere una salvezza assoluta, trovano una speranza in ogni istante che corre.
C’è una luce, una speranza allo stare al mondo. Il mistero che ci sembra incolmabile è un’occasione per lottare per trovare un senso ancorandosi ai rapporti umani. Dobbiamo vivere nell’istante, qui ed ora, sempre perché la vita è un insieme di attimi che devono essere colti.