Una ricerca pubblicata nel 2015 sulla rivista Angewandte Chemie e condotta dall’Università di Antwerp in Belgio ha indagato il deterioramento del pigmento rosso nei dipinti di Van Gogh. La precaria condizione dei colori usati dal noto pittore era stata già al centro dell’attenzione nel 2012, quando sotto i riflettori si trovava il pigmento giallo. In quel caso una vernice protettiva, applicata dopo la morte dell’artista, aveva innescato una reazione chimica tale da rendere arancioni o grigi fiori dipinti nel colore tanto amato da Van Gogh. Fenomeni di tale portata minano la conservazione di un dipinto, il mantenimento delle sue caratteristiche peculiari e originali. Un Van Gogh privato dei suoi colori forti, sgargianti, identificativi perderebbe il suo impatto visivo, la sua riconoscibilità. Per questo motivo importante è lo studio, la ricerca, il restauro.
Il caso da me citato è stato uno di quelli a più alto impatto mediatico, proprio perché si tratta di un pittore largamente noto e fortemente associato alle caratteristiche cromatiche delle sue opere. Il grande pubblico, anche non colto e non specialistico, ha riconosciuto il possibile danno che sarebbe scaturito da una scarsa considerazione del processo di deterioramento. Restaurare è in linea di massima una necessità riconosciuta dai più. È un processo applicabile a dipinti, sculture, opere architettoniche e beni storici-culturali in generale. In Italia forte è il mecenatismo, il finanziamento da parte di privati. Emblematico è stato il caso della Fontana di Trevi: i fondi sono stati donati dalla casa di moda Fendi.
Nel caso del Duomo di Milano e di altri monumenti evidente è stata la promozione da parte di terzi in quanto, durante i lavori di restauro, ben visibili erano le immagini promozionali. Questo, ad esempio, non è stato permesso per quanto riguarda il Colosseo: i finanziamenti non sono statali, ma sul monumento sono stati proibiti slogan pubblicitari durante l’arco dei lavori.
L’arte, dunque, ha bisogno di cura, attenzione, risorse economiche. Un patrimonio artistico consistente come quello italiano richiede un certo dispendio, una certa perizia. Ci sono interventi sui dipinti che possono apparire minimi ad un occhio inesperto ma che sono estremamente funzionali, che garantiscono la sopravvivenza di un dipinto così come l’artista l’aveva pensato e riprodotto. Ci sono poi gli interventi plateali, quelli condotti sui grandi monumenti e che fanno discutere (si pensi al caso del Big Ben a Londra che per i prossimi quattro anni sarà imbrigliato e non si udiranno i suoi rintocchi).
Il restauro, però, non è l’unico connubio tra arte e scienza volto a salvare le opere dallo scorrere del tempo. Simile, analoga è la funzione della filologia. L’azione del filologo è meno conosciuta, passa più in sordina. Uno dei suoi compiti è quello di conservare un testo, non nella sua parte materica (per quella interviene il restauratore specializzato in ambito libresco), ma in quella astratta, per così dire. È importante che di un testo si ricostruisca la sua tradizione, il suo percorso, le variazioni che ha subito attraverso errori di copisti, di trasmissione, di stampa; attraverso censura e ripensamenti autoriali. Il filologo prova a fornire al lettore un testo quanto più vicino alla volontà dello scrittore (o ad un momento della vita dello scrittore o ad un momento storico, in base alle esigenze editoriali). Stupirebbe molti sapere che La Divina Commedia non ha un testo univoco, che non ci è giunta una sola riga scritta dalla mano di Dante, che la sua storia si perde tra manoscritti e manoscritti, copie e copie. Stupirebbe molti sapere che andando in libreria e comprando una determinata edizione ci si potrebbe imbattere in un testo leggermente diverso rispetto a quello riportato in un’altra edizione. Alla base, infatti, c’è un lavoro di confronto, di scelte, di opinioni, di ricerca, di analisi di grafie, sbagli, correzioni: un lavoro che può portare due filologi verso scelte differenti.
È un iter spesso sconosciuto, velato, dato per scontato, non sponsorizzato. È un iter che non dispone di pareti pronte a pubblicizzare il Mecenate di turno. È un iter che permette alla letteratura di sopravvivere, di non trascinarsi come corpo morto attraverso i secoli, ma di risplendere nella sua veste originaria. Permette di svelare anche l’officina degli scrittori, il laboratorio che c’è dietro una poesia. Perché oggi tutti a memoria citiamo “Silvia, rimembri ancora…”, ma c’è stato un tempo in cui Leopardi scriveva “Silvia, sovvienti ancora…” e dietro quel verbo variato c’è tutto un mondo che va salvato.
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