Artista a 360 gradi, conosciuto nel mondo del rap come Caneda e in quello creativo come Cano, Raffaello Canu nasce e vive a Milano. Classe 1976, frequenta il liceo artistico e l’Accademia di Belle Arti e prende la strada del writing. La sua attività si amplia e Cano si dedica anche al lavoro di tipo scenografico, oltre ad esporre in Italia e all’estero. Le opere murali rimangono il suo cavallo di battaglia: viene più volte chiamato per dipingere sui muri o decorare interni, tanto che alcune sue opere sono inserite nel volume “All city writers”, che racconta e spiega il fenomeno del writing. Insieme a celebri stilisti partecipa al “Workwear”, che lo porta ad esporre alla Triennale di Milano, a New York, a Chicago, a Montreal e a Toronto.
D: La tua carriera inizia come writer, spirito che non hai abbandonato negli anni come dimostrano le installazioni “Quadri per alieni” e altri progetti. Cosa vuoi trasmettere e a chi vuoi arrivare con questo tipo di arte?
R: Non voglio trasmettere molto, solo mettere il mio nome su ogni cosa che mi piace, proprio come quando ero un writer. Sono cresciuto in San Babila e i miei amici erano dei criminali: ladri, drogati, spacciatori, rapinatori… È così che impari che non vuoi trasmettere niente né arrivare a qualcuno. Desideri e vuoi solo quello che ti piace. La differenza tra i miei amici e me è che io amavo l’arte. La vita la si trascorre insieme fino al bivio, come quelle notti in strada dove loro rubavano e io dipingevo.
D: Il passaggio su tela che cosa ha significato per te?
R: Ha significato che è impossibile portare su tela ciò che produci in strada, tra i treni o in metro: l’adrenalina, la fretta, la notte, la polizia… Quindi ho cambiato tutto per ritrovare la stessa adrenalina, la velocità, l’oscurità nei gesti della pittura. Ogni cosa che nasce in strada, muore in strada.
D: Caneda, nelle sue canzoni, inserisce parecchi riferimenti letterari e culturali. Cano, nelle opere, allude a qualcosa in particolare?
R: Più che alludere a qualcosa, butto quello che ho dentro, metà dei sogni e metà degli incubi. Non si disegna il dolore, lo si racconta.
D: Tra i tuoi progetti di grande rilievo è “Icaro”, all’interno della mostra “Workwear” per la quale hanno lavorato nomi dell’alta moda, e che ha raggiunto anche gli Stati Uniti. L’obiettivo è quello di rappresentare la caduta dell’abito di Icaro dal cielo. Com’è nata l’idea?
R: Ogni artista, all’interno della mostra “Workwear”, doveva realizzare un abito da lavoro per un’occupazione immaginaria. Marras, lo stilista di Kenzo, ad esempio, ha realizzato un abito per le nuvole. Io ho voluto realizzare quello di Icaro o, meglio, quello che ne resta, come unica testimonianza, perché caduto dal cielo. Impariamo dalle fiabe per poterle cambiare!
D: Molte riviste hanno parlato di te, ma soprattutto sei stato menzionato nell’inserto economico del Corriere della Sera tra “i 305 artisti da tenere d’occhio nel 2017”. Che effetto fa farne parte?
R: Sono molto felice e ringrazio tutte le persone che supportano il mio lavoro, anche se questo e i sacrifici che ci sono dietro sono sempre maggiori dei risultati. Ho ricevuto più amore dal mondo e dal mercato dell’arte, che dall’ambiente del writing italiano, composto da persone mediocri e incapaci di competere in modo giusto. Per paura della competizione provano ogni volta ad ignorarmi, ma inutilmente. Per questo non mettono le foto dei loro lavori vicino alle mie, la gente capirebbe.
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