Il caso Weinstein, di cui abbiamo già trattato, ha sconvolto il mondo hollywoodiano. La verità è emersa in tutta la sua mostruosità e l’ipocrisia del mondo dello spettacolo, quel mondo in cui tutti sapevano ma nessuno parlava, pesa ora come un macigno sull’immagine di folgorante splendore del mondo patinato e brillante delle star.
Forse anche per sopperire alle mancanze degli anni passati, si stanno mettendo in moto movimenti di solidarietà nei confronti delle vittime di abusi, che siano queste vittime dello stesso Weinstein o meno. La sensibilità al tema sembra improvvisamente appartenere in toto a tutti quegli attori, attrici, produttori e addetti ai lavori che non sono stati travolti dallo scandalo e che si calano ora nel ruolo di paladini delle donne.
Bene o male, purché se ne parli.
Così scriveva Oscar Wilde. Al di là dunque di ogni polemica, è importante che la questione venga discussa e affrontata, quantomeno per permettere a tutte quelle realtà impegnate da anni nella difesa dei diritti di tutte quelle donne (e uomini) costrette a subire abusi fisici e verbali di ampliare le proprie possibilità d’azione, in collaborazione con figure di spicco e note al pubblico, capaci di dare visibilità ad una realtà che esiste da sempre ma che solitamente si finge di ignorare.
In risposta dunque al caso Weinstein e agli scandali emersi in seguito, oltre 300 attrici, produttrici e appartenenti al mondo dello spettacolo si sono unite in una campagna di raccolta fondi, allo scopo di sostenere a livello legale donne e uomini vittime di abusi in ambito lavorativo.
È nata così Time’s up, il cui slogan invita a rompere il silenzio su una realtà che, appunto, esiste ma sulla quale in troppi tacciono. L’iniziativa vede tra i propri sostenitori attrici come Cate Blanchett, Ashley Judd, Brie Larson, Reese Witherspoon, Natalie Portman e Meryl Streep e personaggi d spicco come la presidente di Universal Pictures Donna Langley, la scrittrice e femminista Gloria Steinem, l’avvocato ed ex capo dello staff di Michelle Obama Tina Tchen e la co-presidente della Fondazione Nike Maria Eitel.
Il progetto vuole creare un ponte tra le attrici costrette a tacere gli abusi pur di non veder rovinata la propria carriera (come Ashley Judd o Mira Sorvino) e tutte quelle donne (ma anche uomini) che si trovano nella stessa condizione, ma in settori lavorativi più disagiati, dove la disparità di potere tra il lavoratore e chi sta ai vertici è ancora più sproporzionata. Realtà dove parlare è, se possibile, ancora più difficile, e dove i propri diritti devono essere messi da parte, perché spesso, per queste persone, perdere il lavoro vorrebbe dire perdere l’unica fonte di sostentamento per sé e per la propria famiglia.
Il progetto, lanciato con una lettera aperta apparsa sulle pagine del New York Times e del quotidiano in lingua spagnola La Opinion, ha già raccolto una cifra che si aggira attorno ai 13-15 milioni di dollari.
Purtroppo iniziative come queste non sono sufficienti. Azioni come queste agiscono sulle conseguenze e non sulle cause del problema. Risulta sempre più fondamentale cambiare la mentalità delle persone, degli uomini ma anche delle donne, perché finalmente si giunga ad accettare il fatto che i diritti di un individuo non cambiano a seconda del sesso di appartenenza né del suo ceto sociale o del ruolo professionale.