Il tempo che scorre e si ferma nell’arte Parte I

Osservando con calma e attenzione un dipinto o una scultura avete mai preso in considerazione il tempo?
Sì, esatto proprio il tempo: se questo indicatore sia o sia mai stato nell’opera stessa, esattamente come gli altri soggetti. Forse era lì e non ve ne siete mai accorti, oppure altre volte era talmente scontato che quando l’avevate sotto gli occhi in realtà non gli avete dato il giusto peso. Se si pensa genericamente al tempo, a cosa esso sia, lo si associa alla decadenza, al deterioramento e dunque alla morte, per via della sua infinita e perpetua scorrevolezza. Il tempo scorre e la vita si esaurisce. E se invece vi dicessero che il tempo nell’arte è anche vita, ci credereste?

Per far luce sul quesito, occorre scrutare con ancor più interesse alcune opere di artisti che hanno involontariamente, o viceversa, inserito il tempo all’interno non solo del loro operato, mai dei loro pensieri, come valore intrinseco celato in alcuni importanti dettagli.

Michelangelo, Pietà, Basilica vaticana, 1499

Partiamo da quella Pietà che per quanto risultò fin dagli esordi di impareggiabile bellezza, non riuscì a non sorprendere ed insinuare certi dubbi nell’osservatore: la Pietà di Michelangelo, realizzata su richiesta del cardinale francese Jean Bilhères de Lagraulas che desiderava che lo scultore non ancora venticinquenne realizzasse la più bella statua che ci fosse a Roma da destinare alla Cappella di Santa Petronilla, cappella collegata all’antica basilica di San Pietro che a quel tempo era ancora la basilica fondata da Costantino. Michelangelo realizza una madre giovane con, l’ormai cedevole e flaccido corpo del figlio abbandonato tra le sue braccia. La caratteristica che evidenzia l’unicità di quest’opera è la perdita di quel rigor mortis tipico del tema del compianto oltre al volto della Vergine: perché la madre appare più longeva del proprio figlio? Eccolo qui, che sotto forma di interrogativo appare il Tempo.

Dettaglio volto della Vergine michelangiolesca

Michelangelo decise deliberatamente di prendersi delle libertà per realizzare questo dolcissimo viso e per farlo si era appellato alle sue conoscenze: non era un uomo di grande cultura, ma conosceva e amava Dante. La chiave di lettura di quest’opera risiede in un passo dell’ultimo canto del Paradiso che recita <<Vergine, madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura>>. Prima e nemmeno dopo, nessun artista ebbe mai il coraggio di capovolgere il naturale incedere della vita, ogni madre era rappresentata più anziana della propria creatura. Dunque Michelangelo annienta il concetto reale del tempo e lo tramuta in un messaggio religioso, ma non solo: annulla la morte e celebra la vita.

Più di sei secoli dopo Jan Fabre, artista originario di Anversa nato alla fine degli anni ‘50 coglie questa sottigliezza e cerca di renderla propria. Decide di riproporre la pietà del maestro fiorentino, cambiandole i connotati ed inserendo invece l’elemento del tempo.

Jan Fabre, Merciful Dream (Pietà V), 2001

Fabre ripresenta la stessa cedevolezza per la figura di Cristo, a cui attribuisce il proprio volto e i propri abiti e lo cosparge del putrido senso della fine dell’esistenza: il suo corpo in decomposizione è ricoperto da vermi, scarabei e mosche. Lo sostiene ancora ed inspiegabilmente la madre, deceduta precedentemente per amore del figlio volendosi sostituire a lui, che è rappresentata come uno scheletro. Il volto scarno ed inquietante della Vergine pare non lasciar posto ad alcuna illusione: la vita non è contemplata ed ancor meno la resurrezione.

Dettaglio volto della Vergine di Fabre

Ma Fabre è astuto e non permette che la sua opera sia mera blasfemia, apre infatti una porta di speranza realizzando il cervello, tenuto in mano da Gesù. Il cervello è il corpo della mente, dalla forma ‘a uovo’ che rimanda alla (ri)generazione della vita; quindi è l’elemento simbolo della visione della vita, rivelando in modo più che mai chiaro quell’anacronismo artistico volutamente scelto che determina la sua originalità.

Continuiamo a pensare a questo chiastico rapporto arte – tempo e morte – vita, osservando ad esempio l’opera “Le balcon” di Manet. I personaggi ritratti sono amici di Manet e di immediata riconoscibilità è l’amica, modella oltre che sua futura cognata Berthe Morisot, seduta in primo piano.

Manet, Le balcon, 1869, Musée d’Orsay

I personaggi sembrano scollegati tra loro e non hanno alcun comportamento che li porti a collaborare ed inoltre nessuno volge lo sguardo allo spettatore. Sembrano congelati nell’attimo scelto da quel artista che ‘aveva un gusto deciso per la verità moderna’, come disse Baudelaire. È proprio l’assenza di coinvolgimento tra chi guarda l’opera e i soggetti a permettere lo svolgersi della scena. L’attenzione di Berthe è catturata da qualcosa che compare in strada; alle sue spalle altri due personaggi hanno lo sguardo perso fra i propri pensieri, come se osservando la vita al di fuori della finestra si rendessero conto di essere spettatori di un palcoscenico a cui loro stessi appartengono e lo stesso dicasi per il cane, attratto da chissà cosa. Infine l’ultima figura in penombra è concentrata a svolgere correttamente la propria azione. Non sappiamo di più, ma è la nostra immaginazione a riempire la scena e a renderla viva. In questo caso è il fruitore stesso ad inserire il tempo nel dipinto, con la sua fantasia prova a ricostruire gli attimi che precedono e susseguono l’istante prescelto: chi osserva quindi mantiene in vita la realtà di questi personaggi, che non potrà mai esaurirsi. Partendo da una apparente istantaneità, si giunge ad una incessante continuità, ad un fluire misterioso che ci incuriosisce, ci fa immaginare, riflettere ed infine ci coinvolge.

E se anche qui, ci si scontrasse con la versione finita e definita del tempo? Beh, forse a questa possibilità ci ha pensato Magritte.

Magritte, Perspective II. Le balcon de Manet, 1950

Nella sua opera biografica La linea della vita, Magritte ricorda come da bambino si divertisse a giocare nel cimitero del paesino belga natio con una coetanea; fu in quelle occasioni che scoprì la pittura osservando un artista che veniva appositamente dalla città per dipingere paesaggi ed a quei frangenti sono da ricondurre con tutta probabilità sia il suo diffuso interesse per la morte sia la serie delle Prospettive. Nella seconda di queste, l’artista fa letteralmente invecchiare i personaggi di Manet, che sono ormai morti e collocati nelle proprie casse funebri. È una presa di coscienza storica rivisitata attraverso un gesto surrealista: l’ineluttabilità della fine è intesa non solamente come morte fisica dell’uomo, ma anche come morte di una classe sociale e come conclusione di un’epoca che non tornerà più.

Eccovi mostrati degli esempi di opere in cui il tempo è presente, nella sua estensione o nella sua conclusione e come ultimo tassello per terminare questa riflessione, occorre valutare la compresenza di queste due componenti per mezzo del progetto di Roman Opalka.

Roman Opalka è un artista di origine polacca, che nel 1965 inaugurò il suo progetto di vita “Opalka 1965/1-∞”, un lavoro con il quale l’artista ha dedicato la sua esistenza nel tentativo di intrappolare lo scorrere del tempo. Inizialmente il suo progetto consisteva nel dipingere su tele di dimensioni sempre uguali 196×135 cm (la dimensione della porta del suo studio) con il colore bianco la numerazione progressiva crescente di numeri razionali interi dal numero 1, all’infinito. Più accresce il suo corpus, più l’artista si sorprende e addirittura si spaventa dell’immensità del compito che si era prefissato e soprattutto dalla necessità di portarlo avanti veramente fino alla fine dei suoi giorni, il che lo conduce ad aggiungere altre caratteristiche
all’intera opera.

Opalka, Détail

Alla superficie di fondo, inizialmente nera, Opalka aggiunge a ogni nuova tela un centesimo di bianco, così che con il fluire dei giorni, si ha l’impressione che i numeri, scritti dall’angolo in alto a sinistra verso destra, si confondano a poco a poco con lo schiarire delle tele. Terminato ogni quadro, ognuno chiamato Détail, la numerazione prosegue su un’altra tela. Dal 1972 introduce una variante al suo rituale: ogni sera, a fine lavoro, scatta un autoritratto fotografico in bianco e nero, sempre alla stessa distanza dall’obiettivo, nella stessa posizione, con la stessa espressione, e un registratore fissa la sua voce mentre pronuncia i numeri dipinti.

Opalka, Autoritratti, 1965-2011

Al progressivo sbiadire delle tele (per la quantità sempre maggiore di bianco posto sullo sfondo) corrisponde lo sbiadire di un volto scavato e logorato dalla vecchiaia. Opalka negli ultimi anni della sua vita ha raggiunto l’obbiettivo di dipingere in bianco sul bianco da lui chiamato “Mérite blanc”(bianco meritato) e di arrivare a contare l’infinito, cosa di per sè impossibile perché se nella pittura dello sfondo c’è anche solo un’infinitesimale quantità di nero, questa potrà essere diluita, ma sarà sempre presente, per non parlare della probabilità di riuscire a contare fino all’infinito. Questi limiti fanno parte del lavoro stesso, primo fra tutti la morte che lo giustifica e lo rende così eclatante.


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