Natalia Ginzburg fu indiscutibilmente una delle maggiori scrittrici del Novecento e molto di lei è stato scritto, soprattutto in riferimento al suo primo romanzo che di fatto la rende notissima, ovvero “Lessico famigliare”. Il romanzo si divide tra memorie personali della sua prima giovinezza, in un contesto familiare un po’ eccentrico, e storia collettiva di Torino fra le due guerre, grazie ai contatti dei genitori con personaggi di spicco dell’epoca che frequentavano abitualmente la casa.
Una questione centrale è fondamentale nella prospettiva di interpretazione dell’opera: è da considerarsi un romanzo o un’autobiografia? Il lettore, giustamente, tende all’identificazione dell’autrice con la protagonista del racconto: sono effettivamente riportati episodi realmente accaduti a lei e alla sua famiglia, non c’è nulla di inventato, come la stessa Ginzburg sostiene con forza nell’Avvertenza:
“Luoghi, fatti e persone sono, in questo libro, reali. Non ho inventato niente […] Anche i nomi sono reali. Sentendo io, nello scrivere questo libro, una così profonda intolleranza per ogni invenzione, non ho potuto cambiare i nomi veri, che mi sono apparsi indissolubili dalle persone vere.”
Tutto lascerebbe presupporre che ci troviamo in presenza di un’autobiografia. Ma in che consiste un’autobiografia? Nel raccontare la propria esistenza, con particolare riferimento alla relazione imprescindibile tra gli accadimenti della vita e la propria parallela crescita o trasformazione interiore. In “Lessico famigliare”, però, questo riferimento alla propria soggettività è assente. E infatti Natalia scrive, sempre nell’Avvertenza:
“Benché tratto dalla realtà, penso che si debba leggerlo come se fosse un romanzo: e cioè senza chiedergli nulla di più, né di meno, di quello che un romanzo può dare.”
Sfogliando il romanzo, il lettore noterà che il focus della narrazione risiede nei quadretti della famiglia dell’autrice, le loro parole e i loro caratteri così particolari, mentre non trovano spazio i conflitti che attanagliano la giovane nel cuore dell’adolescenza, trasferiti al centro di altre opere dell’autrice, in particolare nei racconti brevi. Scrive Natalia:
“Non avevo molta voglia di parlare di me. Questa difatti non è la mia storia, ma piuttosto, pur con vuoti e lacune, la storia della mia famiglia.”
È comunque inevitabile che la finzione si appanni dal punto di vista del lettore, che tende istintivamente a considerare tutto vero. È l’ineluttabile conflitto fra una realtà concreta come fonte d’ispirazione e la sua trasposizione narrativa, che per sua natura abbraccia la finzione.
Elisabetta Mondello, L’età difficile: immagini di adolescenti nella narrativa italiana contemporanea, Roma, Giulio Perrone Editore, 2016.