Ian Curtis: quando la tristezza diventa patologica

Ian Curtis si toglie la vita nel 1980, a soli 23 anni. La band di cui è frontman, i Joy Division, all’epoca è all’apice del successo, all’alba dell’uscita del secondo album ed in procinto di imbarcarsi per il primo tour negli USA. Ian, oltre alla carriera di musicista, ha una moglie ed è padre di una bambina venuta al mondo solo un anno prima. Cos’ha dunque spinto questo promettente ragazzo inglese a compiere un atto tanto disperato come il suicidio?

Ian Curtis nasce nel 1956 a Macclesfield, Inghilterra. L’Inghilterra del dopo guerra, in cui cresce, è una realtà triste e desolata, fatta di fabbriche, macerie, vite che cercano di riprendere e tornare alla normalità. Tuttavia, Ian trascorre un’infanzia ed un’adolescenza serene, è inoltre un ragazzo incredibilmente intelligente e mostra una particolare inclinazione per le materie letterarie, in primis la poesia. Durante l’adolescenza si fidanza con Deborah Woodruff, sua coetanea, che sposerà a soli 19 anni. Quando i due si conoscono, lui è un ragazzo goffo, impacciato, un personaggio locale: un giovane poeta e scrittore che porta skinny jeans, eyeliner, e non nasconde una sfacciata passione per la musica punk.

Joy Division

Il punk ed in particolare i Sex Pistols sono motivo fondamentale della nascita dei Joy Division, band di cui Ian diverrà vocalist, nonché protagonista indiscusso. All’apparenza timido, introverso, sempre gentile ed educato nei confronti del prossimo, è nel ruolo di frontman che il giovane inglese mostra la sua vera, autentica natura: sul palco Ian è statico, persino quando balla, ha movenze rigide, meccaniche, “epilettiche” (non a caso, nel 1979 gli verrà proprio diagnostica l’epilessia), ha uno sguardo intenso, penetrante, che lo rende ipnotico. La sua figura e la sua voce singolare, i testi “dark” dei suoi brani, oltre al sound assolutamente innovativo, per l’epoca, dei Joy Division, lo trasformano in un’icona, l’emblema di una generazione e più in generale di una condizione esistenziale: alienazione, paura, smarrimento, questo gridano gli occhi di Ian Curtis ed in questo molti fans si riconoscono.

Ian è depresso, un infelice patologico. Negli ultimi anni della sua breve esistenza, diviene sempre più insofferente a chi gli sta vicino, al mondo, alla vita. Il matrimonio con Deborah non funziona, lui l’accusa della sua infelicità e comincia a frequentare un’altra donna, una giornalista belga chiamata Annik Honoré, tra sensi di colpa e frustrazione. Gli attacchi di epilessia di cui soffre si fanno sempre più gravi e frequenti, tanto che i medici gli sconsigliano di continuare nella professione di musicista, troppo impegnativa e stancante. Ma Ian non vuole fermarsi, gli è impossibile immaginare per lui una realtà ordinaria, l’idea lo avvilisce. I medicinali che prende per curare l’epilessia gli causano incessanti sblazi d’umore ed un generale distaccamento dalla realtà, che non riesce a controllare. I segni della sua lacerante malattia sono da tempo sotto gli occhi di tutti, nei testi delle sue canzoni, che parlano di fallimento, pressione, oscurità, perdita di controllo. Tuttavia, nessuno riesce a dare il giusto peso a quei testi, fino a quando, una mattina, non lo trovano impiccato nella cucina della sua abitazione. La sua scomparsa drammatica e prematura crea inevitabilmente il mito, la leggenda attorno alla rockstar. Ian Curtis, come tanti altri artisti prima e dopo di lui (basti citare Jim Morrison, Kurt Cobain o i più recenti Chris Cornell e Chester Bennington), con la sua morte si da’ all’eterna giovinezza, all’eterna fama.

Sono tante, purtroppo, le menti al contempo geniali e fragili, le personalità sensibili che non ce la fanno ad affrontare un mondo tanto crudele ed incomprensibile, misto al peso della popolarità e del successo, e che preferiscono andarsene. C’è tuttavia una generale tendenza a “romanticizzare” queste morti: i demoni che si impossessano di questi brillanti giovani vengono accettati, legittimati come parte del loro essere artisti. Sarebbe invece necessario ed opportuno riconoscere la gravità della depressione come malattia da curare, al pari di qualsiasi altra, al di là del suo rivelarsi fonte di materiale per un buon disco rock, prima che sia troppo tardi.

 


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