“Un giorno una Signora forastiera,
passanno còr marito
sotto l’arco de Tito,
vidde una Gatta nera
spaparacchiata fra l’ antichità.
– Micia che fai? – je chiese: e je buttò;
un pezzettino de biscotto ingrese;
ma la Gatta, scocciata, nu’ lo prese:
e manco l’odorò.
Anzi la guardò male
e disse con un’ aria strafottente:
Grazzie, madama, nun me serve gnente:
io nun magno che trippa nazzionale!”
Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri (vero nome di Trilussa, il cui pseudonimo è in realtà un anagramma del cognome) scrive questa poesia, Romanità nel 1913. Trilussa (1871-1950) è rimasto famoso come poeta romanesco per più di un motivo: il primo, che l’ha reso più memorabile nella storia italiana e non solo in quella laziale o prettamente romana, è che il suo dialetto è mescolato con l’italiano letterario -nonostante fosse un seguace di Belli- comprensibile a tutti. In secondo luogo, la sua personale, ironica e cinica, e per questo di successo di successo, visione di Roma: ovviamente, Trilussa era innamorato della propria città, nonostante in tutte le sue poesie se ne colgano i difetti e i lati oscuri; ma è proprio questo che dimostra l’amore del poeta per il suo luogo natio: con i suoi versi, l’autore racconta una Roma borghese e piccolo borghese (soprattutto all’inizio della sua produzione) con una nota caustica e al contempo divertente, con alcune sfumature di malinconia crepuscolare, e ne evidenzia la netta opposizione tra le apparenze della società e le verità della stessa, mettendo a nudo tutte le contraddizioni del suo tempo, con un’ironia spietata e moraleggiante. Ma questo criticare non è forse un altro modo per lodare la città in quanto unica nel suo genere e caratterizzata da peculiarità che la differenziano da ogni altra città del mondo?
Sebbene si tenda a dividere la prima produzione dalle favole, si considerino qui una il proseguo dell’altra: ad esempio, ne “La scappatella der Leone“, dove un leone parla con una iena e le dice che vorrebbe tornare ad uccidere nell’arena del Colosseo come al tempo dei gladiatori, la iena risponde: “Nun hai saputo che, da un pezzo in qua, /è proibbito d’ammazzà la gente /senza er permesso de l’Autorità? /Tu rischi de restà senza lavoro; /dà retta a me, collega mio, rimani: /e lascia che li poveri cristiani /se magnino fra loro.” Così dicendo, Trilussa afferma l’ipocrisia della Chiesa e dei fedeli, che ormai si mangiano tra loro.
Questa critica fortissima ai cristiani (ovviamente dovuta all’estrema vicinanza del Vaticano) si ritrova anche in “Carità cristiana“, “Zi’ Prete” e altre. Anche nella politica è molto critico (dopotutto è un pacifista che vive sotto il fascismo), sebbene lo faccia con molta autoironia: nella poesia “La politica” si assume in maniera disinvolta e divertente il ruolo del monarchico, ma afferma che la sua famiglia è divisa da tante idee politiche diverse e l’unica cosa che riesce a mettere tutti d’accordo è la cena (richiamo alle tradizioni romane che privilegiano i pasti in famiglia):
“Prima de cena liticamo spesso
pe’ via de ‘sti principî benedetti:
chi vò qua, chi vò là… Pare un congresso !Famo l’ira de Dio ! Ma appena mamma
ce dice che so’ cotti li spaghetti
semo tutti d’accordo ner programma.”
La derisione, il giudizio sociale, riguardano sempre tutti gli esponenti della borghesia, che lui chiama “il popolino romano” ma che si può intendere come “gli italiani in genere” e li descrive spietatamente come egoisti, ipocriti e astuti, che vengono poi tipizzati in delle macchiette che fanno sorridere. È il ritratto di un popolo semplice, ma furbesco, odiato e amato contemporaneamente perché Trilussa stesso si sente parte di tale popolo, nonostante ne colga i limiti. Ma c’è anche un’altra Roma, della prima produzione del poeta, ed è quella di “Stelle de Roma“: l’autore scrive un madrigale per ogni bella ragazza della sua città (Trilussa è stato anche un famoso donnaiolo, dopotutto), tanto da ispirare nel futuro molti altri autori che scriveranno raccolte di “stelle“.
Dunque non solo l’autore di favole esopiche, principale ruolo per cui viene ricordato, ma anche testimone di una Roma imperfetta e adorabile nei suoi vizi e nei suoi difetti, viva e sempre attuale.