Scrivere in occasione del giorno della memoria è un compito difficile. Alla complessità di articolare un pensiero lucido e coerente su storie ed episodi legati alla Shoah si aggiunge anche una distanza innegabilmente generazionale, per chi quei fatti non li ha mai vissuti o sentiti raccontare neanche all’interno della propria famiglia allargata. La difficoltà dell’approccio a un simile tema, unita alla quantità di informazioni oggi peraltro a disposizione, comporta spesso il rischio di incorrere in dolorose semplificazioni e ingenue retoriche. Per evitare di cadere nella trappola dei discorsi vuoti e della commiserazione superficiale, credo che non si possa far altro che cercare di aggrapparsi a qualche traccia sicura, a racconti sentiti con le proprie orecchie, a viaggi e letture intrapresi per capire, ascoltare, toccare con mano e con consapevolezza i resti di un passato lontano, che ancora oggi continua a interrogarci e a sgretolare le nostre certezze.
Come ogni giovane studente che questo pezzo di storia l’ha studiato solo a scuola, è stata la lettura di un libro in particolare, suggerito dal prof. Maurizio Guerri all’Accademia di Brera, a farmi sentire, per qualche momento, emotivamente vicina e testimone delle storie intime di chi deportato in un lager c’è stato davvero. “Diario di Gusen” è una raccolta di lettere e frammenti scritti da Aldo Carpi, deportato a Mauthausen e poi a Gusen tra ’44 e ’45, e risistemati in forma di libro, con l’aggiunta di interpolazioni e spiegazioni, da suo figlio Pinin, che ne rese possibile la prima pubblicazione nel 1993. Ma ciò che rende incredibilmente vivide le parole di Carpi, rispetto ad altri scritti di sopravvissuti alla Shoah e ai campi di lavoro nazisti, è l’innesto, nel corpo centrale del libro, di schizzi, disegni e dipinti che egli eseguì proprio durante la deportazione e dopo la liberazione. Aldo Carpi era infatti un artista, catturato e mandato nei campi di lavoro in Austria non perché ebreo ma perché impegnato in azioni antifasciste nella Milano degli anni ’40. Ma chi era quest’uomo, sulla cui camicia a strisce bianche e blu venne appuntato il triangolo rosso dei dissidenti politici, e che scampò ai lavori forzati grazie al suo mestiere di pittore?
Nato nel 1886 a Milano, Aldo Carpi si appassiona da subito al disegno e alla pittura, e dopo il liceo classico si iscrive all’Accademia di Brera. Già dal 1930 è titolare della cattedra di pittura nella stessa Accademia, e nella sua carriera artistica fioccano importanti commissioni e inviti a mostre e Biennali di Venezia. Nel frattempo è stato già soldato durante la Prima Guerra Mondiale, dove in Albania e in altri luoghi scrive e disegna gli orrori della guerra, ma riesce anche, in licenza in Italia nel 1917, a sposare la sua Maria Arpesani, da cui ha poi sei figli. Ma è solo negli anni quaranta, dopo l’inizio di un’altra guerra che di nuovo sconvolge Milano, che la vita di tutta la famiglia viene stravolta: il 23 gennaio 1944, a Mondonico (paesello in Brianza dove i Carpi erano sfollati), Aldo viene arrestato in casa da uno squadrone fascista, su delazione di un compaesano. Carpi non fece mai, nemmeno in seguito, il nome del traditore che lo aveva fatto catturare, ma si sa che fu Dante Morozzi, suo collega e professore di scultura del liceo artistico di Brera, una spia fascista. Carpi ha 57 anni quando viene arrestato, portato a Milano nel carcere di San Vittore ed infine caricato sui camion diretti ai campi di lavoro di Mauthausen e Gusen. Sopravvive nel lager un anno e mezzo, fino alla liberazione americana: nel luglio ’45 Carpi riesce a fare ritorno a Milano, dove viene acclamato a gran voce Direttore di Brera da colleghi e studenti. Muore a Milano nel 1973, dopo aver continuato a dipingere, insegnare ed esporre nella sua città con gioia e passione.
Una storia a lieto fine? Non proprio. Come tanti altri sopravvissuti ai lager, Carpi si portò sempre nel cuore il gelido e cupo ricordo della sua esperienza (Primo Levi e Jean Améry sono due intellettuali che sopravvissero ai lager ma non al ritorno all’indifferenza fluida della vita quotidiana post-bellica, e si tolsero la vita). D’altra parte è soprattutto grazie al suo mestiere di pittore che in quell’inferno riesce a salvarsi la vita: i medici polacchi che lavorano nel campo per i nazisti e gli stessi ufficiali delle SS lo prendono quasi in simpatia, gli procurano colori e materiali in modo che dipinga loro paesaggi, nature morte, ritratti di fidanzate. Aldo vive male questo obbligo alla “pittura forzata“, ma sa che lavorare “per loro” è l’unica possibilità di ritagliarsi il privilegio della sopravvivenza (in tutto produce, per gli ufficiali nazisti e i medici, 74 opere, ad olio e a tempera). In questo modo riesce a scampare alla fatica e alle sofferenze del lavoro nelle cave di pietra di Gusen o nella raccolta di patate sotto la pioggia e la neve, nel fango.
Nello stesso tempo, Carpi è compartecipe delle sofferenze quotidiane nel lager, anche lui ha poco da mangiare ed assiste a scene della più crudele degradazione fisica e morale, vedendo perire uno dopo l’altro i compagni di sventura per le fatiche del lavoro, per le torture degli ufficiali, o nelle camere a gas. Le dense e dolorose storie e testimonianze dei deportati, i volti degli amici visti soffrire sempre più fino alla morte, o anche i rarissimi momenti di quiete nel campo diventano il soggetto primario dell’altra, più autentica, produzione di Carpi: schizzi a carboncino o matita che Aldo in alcuni casi realizza, coraggiosamente, a Gusen dal vivo, oppure subito dopo la liberazione americana (mentre i cumuli dei cadaveri rimangono, intoccati, a terra) o anche, più tardi, a memoria, rientrato a Milano (dove inizierà la serie dei “Carabinieri”, figure scure e inquietanti, simil-fasciste, che maltrattano i più deboli). La produzione di Carpi in questi anni è quindi enorme, nonostante lui si lamenti nei suoi scritti di mancare di “genuina ispirazione” al lavoro: la pressione della commissione è forte, dei tedeschi prima, mentre era nei campi, e anche degli americani dopo, che si prendono cura di lui dopo la liberazione ma si approfittano del suo mestiere ancora per qualche mese, prima di lasciarlo tornare a casa. Il materiale visivo più vivido, onesto e lucido, come atto del disegnare libero e non più strattonato dai potenti, rimane questa serie di schizzi semplici, nero su bianco, di scene, corpi, cadaveri, e volti dei compagni deportati.
La complessità dei sentimenti che Aldo prova in questo anno e mezzo, lontano dalla sua calma quotidianità familiare e artistica, si sussegue nelle pagine del suo diario segreto, nato alla Vigilia di Natale del ’44 dapprima come una serie di lettere d’amore alla moglie Maria e poi diventato un rituale di conforto, sempre mantenuto e protetto nel silenzio. Carpi prova sgomento per l’espressione di assoluta disumanità delle SS, gli è ripugnante riconoscere la crudeltà degli ufficiali, è atterrito dalla mortificazione e degradazione di ogni impulso fraterno cui si assiste quotidianamente dentro il campo, la costrizione alla sopravvivenza primordiale, all’annullamento spirituale; ciononostante, le sue parole non assumono mai il tono del risentimento e dell’odio, i suoi scritti sono pieni di pietà, tolleranza e assoluta fede in Dio, nella continua e determinata speranza di un cambiamento futuro e di un ritorno all’amorevole normalità della sua famiglia.
La fede di Carpi è sostenuta, forse, dalla consapevolezza che fissare sulla carta i ricordi freschi e lucidi di ciò che sono i campi di sterminio potrà aiutare a tramandare la verità in futuro, a chi non ha mai avuto davanti agli occhi quella cruda realtà. Per quanto veloci, rapidi e abbozzati, i disegni di Carpi partecipano, fotografie ma col taglio emotivo del disegnatore e della sua storia, alla creazione di un materiale concreto e vivido, prova oggettiva ma anche intima e personale di quello che è stato l’orrore del nazismo per un uomo, e per tutti gli altri.
FONTI
Diario di Gusen, a cura di Pinin Carpi, Einaudi, Torino 2008
CREDITS
Copertina foto scattata dall’autrice da Diario di Gusen, Einaudi 2008
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