Ho conosciuto Flavia Albu nei corridoi e nelle aule dell’Accademia di Brera qualche anno fa, nei giorni intensi, frustranti ed entusiasti del nostro percorso accademico triennale di Pittura. Di Flavia colpisce la caparbietà e la concentrazione con cui si dedica alla pittura, un medium così carico di significato e pregnanza nella storia e nella fenomenologia dell’arte che lei da sempre interroga e discute senza sosta e senza timore. Le sue grandi tele ad olio esprimono questa tensione nei confronti di una tecnica che non è solo tale ma una membrana, uno schermo che le permette di interrogare la visibilità stessa delle forme, fantasmi della visione nella genesi del loro farsi materia. La riflessione sulla pittura come mezzo di indagine del visibile e come superficie di accoglienza della meraviglia e del dubbio è da sempre al centro della pratica di Flavia, anche nei suoi ultimi lavori più sperimentali e installativi, in cui il suo interrogare le forme si estende spazialmente a nuove superfici e nuovi oggetti. La incontro su Skype: è nel suo studio, sul muro bianco tele arrotolate ed altre tese, aperte, in attesa, nel bel mezzo del lavoro.
Qual è stato il motore primo che ti ha spinto ad abbracciare la pittura, da quando ti sei iscritta all’Accademia ma anche prima, nel tuo percorso di studi? Il tuo lavoro esprime una necessità ossessiva di indagare la superficie pittorica e le sue forme. Che cosa cerchi dalla pittura stessa?
Sin dall’inizio ho cercato di capire quale fosse il senso della pittura per me, oggi, in questo momento esatto. Mi interessava affacciarmi alla genesi dell’immagine nel suo farsi, dialogare con il processo stesso dell’apparire di una forma, intesa come qualche cosa che emerge lentamente, che si fa strada nella visione e sulla superficie della tela. Ho sempre lavorato in modo processuale, dialettico con l’immagine che si afferma, imparando a lasciare spazio al dubbio, al silenzio e alla pausa: spesso si tratta di scegliere di fermarsi di fronte a ciò che si sta manifestando, invece di continuare. In questo senso per me dipingere è produrre uno spazio generativo di immagini, una superficie che rivolge domande a se stessa in quanto pittura e pratica pittorica.
Il problema di una pittura come mimesi è quindi già superato nel tuo lavoro. Non hai alcun interesse nella produzione di forme riconoscibili ma nello stesso tempo non ti stai concentrando sulla pittura in senso sterilmente analitico: nessun discorso di medium-specificity, ma piuttosto la disciplina di una pittura vibrante e mai affermativa che lascia molte domande aperte…
Esatto. Nel rapporto con la pittura mi vengono spesso in mente le parole di Bergson circa la realtà, che lui definisce “evidente e nondimeno ostinatamente evasiva”: la pittura, nel colore e negli accenni di una qualche forma, appare in modo manifesto ma insieme non si dà mai in modo chiaro e inequivocabile, rimane un enigma. La pittura si svincola “dalla necessità di una rappresentazione” (come dice anche Alberto Mugnaini nel suo testo critico per una nostra mostra), non ha alcun oggetto di interesse diretto se non se stessa e le sue qualità e capacità luminose e vibranti. Come dici tu, però, non mi interessa l’idea di una pittura analitica o solipsistica, chiusa nell’indagine cromatica o strutturale di se stessa, né d’altra parte conservo una visione del dipingere come canale di sfogo espressivo. Il mio approccio alla pittura non è vicino né all’idea di un’analisi pittorica razionalista né ai moventi dell’Espressionismo astratto, per parlare storicizzando…credo che le cose siano più complesse di così.
Proprio a proposito di questa problematica della storicizzazione della pittura e della referenzialità e complessità che inserirsi in un tale contesto comporta: dopo la laurea triennale in Pittura hai deciso di proseguire gli studi a Brera con il biennio specialistico. Ora fai parte della classe di Maurizio Arcangeli, un contesto particolarmente celebre per il clima di aperta discussione e di confronto costante (in prospettiva storica, sociale, culturale) nel momento della presentazione del proprio lavoro di fronte agli altri. Come vivi il dibattito sul fare pittura oggi e sul legame con la storia dell’arte?
La referenzialità storica è di sicuro un nodo cruciale nella discussione del lavoro, anche se spesso mi sembra che nel dibattito ci si riesca a perdere senza troppa difficoltà: sicuramente, per ora, non sento di avere tutti gli strumenti per affrontare con sufficiente consapevolezza e lucidità questo discorso, nonostante Brera sia il posto giusto per farlo e per formarsi. È difficile dialogare con ciò che ci ha preceduti in modo efficace e puntuale, considerando cioè anche gli aspetti metodologici, profondamente intesi. C’è sempre uno scarto che non è facile colmare organicamente tra l’esperienza vissuta, per certi versi anche intima, del fare artistico e la necessità di uno sguardo critico, sapiente e distaccato, figuriamoci vivere in prima persona il grande dialogo storico! Soprattutto viverlo nella pratica, dove bisogna, forse, anche essere capaci di dimenticarlo, senza per questo eliminarlo.
Anche Mugnaini parla nel suo testo di una certa “ansia dell’influenza” che può sopraffare nel fare pittura oggi, specialmente “scegliere di maturarsi con le armi della pittura, spossate da un millennio di tradizione e quasi consunte da un secolo di avanguardia, comporta una sfida ai limiti dell’assurdo”. Che cosa sono i nodi critici su cui rifletti oggi nel tuo fare pittura, al quinto anno a Brera?
In realtà continuo a usare il mio lavoro come “strumento per pensare“, come qualcuno mi ha detto, e per continuare a decifrare i tanti enigmi strutturali della pittura e delle forme della visione. Già dopo i primi tre anni mi sento, in qualche modo, molto più disincantata sul rapporto “affettivo” con la materia pittorica stessa, e cerco di prestare attenzione, nella mia ricerca, a certi automatismi e meccanismi, come la ricerca di un’immagine “bella” o soddisfacente, senza evitarli a priori ma indagandoli attivamente. Nel flusso pittorico mi chiedo spesso cosa sia la mia volontà, quale sia il ruolo della mia libertà nel fare un’azione piuttosto che un’altra. Ad esempio, mi è sempre piaciuto pensare a come Gerhard Richter, forse anche per demistificare l’idea di una pittura espressiva in se stessa, avesse cominciato a dipingere copiando delle fotografie: studiava così l’immagine nel suo farsi, senza alcuna pretesa di originalità o di primato espressivo. Interessa anche a me capire come si sviluppa un’immagine tra freddezza programmatica e intuizione, tra analisi critica e coinvolgimento emozionale con la materia pittorica, tra scelta del linguaggio e abbandono…l’immagine si disfa dentro a queste domande.
È possibile che questo approccio forse un po’ demistificante e disilluso nei confronti della pittura come medium compatto e solido sia anche espresso dall’assenza di veri titoli dati ai tuoi lavori? “Senza titolo” è infatti una formula che ricorre quasi sempre nel tuo portfolio. Mi sono chiesta se da parte tua evitare la nominazione dell’opera significhi dare all’opera stessa più pregnanza visiva, più autosufficienza oggettuale, o se invece la inserisca entro una processualità seriale, aliena da ogni pretesa di autonomia o di corporeità unitaria. Conoscendoti direi la seconda…
Sì, hai ragione. Forse la mia idea di pratica pittorica è come la messa in movimento di una serie di tentativi, esperimenti, “ipotesi” piuttosto che affermazioni di per sè sufficienti. Mi viene in mente adesso che spesso molti miei lavori tra me e me li chiamo “tende”: forse è questo l’elemento a cui più somigliano, o comunque la metafora pacata con cui mi piace leggerli, come filtri sovrapposti, schermi, superfici generative. Ma comunque non sento la necessità stabile di connotazioni così forti, né tanto meno metaforiche. I lavori sono quello che sono: pennellate su pennellate e pittura su tela.
Mi vengono in mente ora alcuni tuoi ultimi lavori più installativi, in cui dalla superficie della tela sei passata ad interrogare lo spazio tramite nuovi materiali, come questa rete grigiastra a trama fitta che hai usato più volte. Come ti relazioni a questo nuovo materiale e qual è il suo legame con la pittura?
Ho iniziato a porre maggiore attenzione a quello che osservo negli ambienti in cui mi trovo, e ho realizzato che sono molto spesso le tende, le finestre, i ritagli di luce. La tela stessa della pittura è tutto sommato una tenda, e qui possono tornare mille riferimenti come l’idea della pittura come finestra (Leon Battista Alberti, ndr). Nei nuovi materiali ho trovato nuove ragioni del mio interesse per la pittura, come questi pezzi di rete tipo zanzariere, responsabili tra l’altro di quel disturbo ottico chiamato “effetto Moiré“: questo accade quando due texture diverse sovrapposte danno origine a un’immagine tremolante, a onde, come quando una rete o uno schermo sono ripresi da una telecamera digitale. Tutte queste sono riflessioni nate in seno alla pratica pittorica, indagando le idee di trama, rifrazione, generatività e movimento delle forme.
Tornando alla pittura, è facile accorgersi che la maggior parte delle tue tele sono di formato verticale, e la proporzione tra i lati del rettangolo è spesso molto simile. Come spieghi questa tendenza nella scelta del formato? Sei affezionata allo slancio verticale e alla frontalità di questo tipo di tela?
Sì, decisamente. Ho sempre pensato che la tela dovesse in qualche modo corrispondere al mio corpo, alla mia fisicità e alle mie possibilità. Quello verticale è un formato che mi corrisponde nella mia mobilità. Inoltre mi dà la possibilità, proprio fisicamente, di gestire delle pennellate dall’alto al basso, e viceversa, un movimento che può avvenire sia nella precisione che nella rilassatezza delle membra. Anche per la loro stessa dimensione, i miei dipinti (spesso di 2 m di altezza, ndr) possono essere posti in analogia strutturale con le tende, come dei grandi filtri verticali. Questa superficie “altra” con cui interrogo me stessa e il mio corpo coinvolto nel processo pittorico è quasi uno specchio, uno spazio generativo, un alter-ego con cui entro in relazione. È un’interrogarsi che si riappiattisce sempre sulla visibilità della pittura.
Flavia Albu è nata nel 1991 a Suceava, in Romania. Dal 1993 vive in Italia, dove nel 2013 consegue la Maturità artistica presso il Liceo Artistico Statale “Giacomo e Pio Manzù” di Bergamo. Nello stesso anno si iscrive al Triennio di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, dove attualmente frequenta il Biennio specialistico di Pittura.
Mostre e residenze recenti:
Residency THE FINE ART COLLECTIVE, Griffin Gallery, Londra, agosto 2017
Progetto ACCADEMIA APERTA 2017, Accademia di Belle Arti di Brera, Milano, luglio 2017
Collettiva DEVI CAMBIARE LA TUA VITA a cura di Bianca Frasso, presso Hangar Ex Macello di Milano, maggio 2017
OPERE DEI MAESTRI E DEI LORO MIGLIORI ALLIEVI, Scuole di pittura dell’Università d’arte e design di Joshibi (Tokyo) e dell’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano), novembre 2016 a Tokyo, febbraio 2017 a Milano
Collettiva SPAZI ALTRI, associazione culturale Art Gallery, Milano, febbraio-marzo 2017
FONTI
autrice in dialogo con Flavia Albu,
Alberto Mugnaini, testo critico nel catalogo della mostra “Pittura Futura – ipotesi future di visioni pittoriche”, presso la Galleria Rivoli2, Milano, (5 maggio – 4 giugno 2016).
CREDITS
© courtesy Flavia Albu