Eravamo seduti allo stesso bar da tre sere. Pigramente qualcuno accennava a ipotetici progetti per il fine settimana. Roberto provava a suggerire di scendere al mare, che magari ancora c’è qualche serata, che è ancora settembre, che forse c’è più gente in giro. Annuivano tutti, ma io già sapevo che non ci saremmo mossi nemmeno il sabato successivo e nemmeno quello dopo ancora e quello dopo ancora. Magari avremmo cambiato bar, ci saremmo spostati a quello in piazza per incontrare qualcuno, vedere chi passa, vedere chi, come noi, è rimasto.
Io sono rimasta. Sono rimasta in questo paesino abruzzese che conta mille abitanti. La metà di questi nemmeno vivono davvero qui, ma hanno mantenuto la residenza. L’altra metà ha comunque un’età media che sfiora la sessantina.
Poi ci siamo noi, quelli che non ce l’hanno fatta, quelli che non vogliono farcela.
Abbiamo tra i venti e i trent’anni. Qualcuno è clamorosamente in ritardo con gli studi, qualcuno li ha lasciati prima di poterlo essere. Qualcuno lavora in fabbrica già da tempo, qualcun altro, in modo molto più semplice, accetta che siano i genitori a mantenerlo.
La maggior parte non è mai uscito da questo buco sicuro: conosce a memoria i nomi di ogni abitante, l’anagrafica, le relazioni, i retroscena di chiunque; ma nulla sa di cosa vuol dire non vivere qui, non essere imprigionati qui.
Molti non hanno nemmeno fatto un viaggio o al massimo sono arrivati a Gallipoli d’estate perché lo fanno tutti, perché il Salento è bello, perché non serve andare all’estero che l’Italia è così bella, e c’è il mare, c’è il sole, c’è il vento, ci sono le discoteche, ci si diverte, si cambia aria. Alcuni proprio non ci tengono a varcare un confine che realisticamente non esiste, ma ancora più realisticamente è presente, saldo nelle menti dei miei amici di sempre. E loro rimangono qui, confinati in un’anacronistica esistenza che non hanno scelto, ma a cui si sentono destinati. Perché mica lo sanno davvero quanto veloce stia correndo il mondo fuori da qui.
Io, invece, sono una di quelli che è tornata. Siamo pochi, al momento mi sento quasi l’unica. Siamo quelli messi peggio perché, in un certo senso, abbiamo fallito. Per molti siamo quelli che c’hanno creduto, che si sono sentiti superiori, migliori. Siamo gli ingrati, i sognatori, gli illusi, quelli che non c’hanno capito niente perché il mondo funziona così che non lo sai, che ci vogliono le raccomandazioni, che tuo padre non è nessuno, che il giornalista mica è un mestiere, che dodici ore in fabbrica ti fanno mangiare, che era meglio se facevi la professoressa che almeno è sicuro, che non è sicuro niente oggi, che i politici s’arricchiscono a spese nostre, che dovevi fare lo scientifico e poi il medico, che gli stranieri ci rubano il lavoro e che ci sei andata a fare a Roma.
In mezzo alla caotica opprimente sequela dei loro luoghi comuni, dei cliché e degli stereotipi, torna sempre il suo nome, il nome del mio primo amore.
Io so cosa vuol dire non essere condannati a stare qui. Io ho conosciuto Roma. E me ne sono innamorata.
Avevo diciannove anni, la maturità alle spalle e l’estate più infelice della mia vita dietro. Avevo due valige e trecentottanta euro di affitto in nero da pagare. Sognavo Londra, Amsterdam, Bruxelles, l’Australia. Sognavo i cliché perché ero cresciuta in mezzo agli stereotipi. Ma ciò che più sognavo era di scappare, di andare via perché davvero mi sembrava di soffocare, di vivere una claustrofobica esistenza.
Roma è arrivata, mi ha buttato in mezzo ai clacson, allo smog, alle strade trafficate. Ha preso e ha provato a farmi salire sulla metro delle sette e mezza, quando a Piramide proprio non c’è lo spazio materiale per riuscirci. Roma m’ha fatto aspettare, ha deluso le mie attese ad ogni fermata dell’autobus. Roma m’è costata caro, mi ha fatto spendere ogni singolo centesimo guadagnato per avere una stanza decente con vista sulla stazione Tiburtina, su secchi della spazzatura stracolmi e con un via vai di autobus continuo. Roma m’ha portato a cena nei migliori localini di Trastevere e Prati e poi m’ha costretto a mangiare tonno in scatola per tre sere di fila. A me, che venivo dalla periferia della periferia di una provincia provinciale, Roma m’ha corteggiato, m’ha divorato, m’ha rapito. È stata crudele e certe volte sarei voluta scappare, tornare a casa, tornare al sicuro, tornare nel mio mondo. Poi, all’improvviso, Roma è diventata il mio mondo.
M’ha suggerito di andare a piedi, di cambiare strada, di girare a destra al semaforo e non a sinistra che se sbagli un attimo direzione con niente ti ritrovi davanti al Colosseo. All’orecchio m’ha sussurrato di segnare ogni museo, ogni quadro, ogni monumento, ogni parco, ogni mostra e di provare a visitarne quanto più possibile. Roma m’ha educato alla bellezza che davvero fiorisce nei posti dove meno te l’aspetti. Roma m’ha fatto capire che ogni strada è piena di ostacoli, di buche, di difficoltà, ma che alla fine non si è mai soli. Roma m’ha portato a cena ogni sera in un posto diverso, m’ha dato la possibilità di scegliere. Non sempre il solito bar, ma mille bar, mille ristoranti, mille alternative. Ed ogni quartiere per me è diventata una città diversa, una diversa possibilità, un’altra occasione. E me la sono girata tutta, Roma. O così credevo, poi ne ho scoperto l’ennesimo angolo, l’ennesima realtà, l’ennesima possibilità. E quanto m’ha spaventato Roma, ma quanto m’ha accudito. Nelle giornate storte, nel caos della sua grandezza, non c’è stato mai un momento in cui non m’abbia regalato un po’ di speranza, un po’ di buonumore, un po’ di bellezza, un po’ di spensieratezza. Me la tenevo stretta Roma mia.
E poi son dovuta tornare.
E quindi mamma Roma, addio. A te che m’hai respinto e poi accolto, che m’hai conquistato e ti sei presa tutto. A te che m’abbandoni perché devo muovermi con le mie gambe, ma queste a Roma non bastano e non basto io e servo altrove e non ce la faccio ed è meglio tornare a casa. Ma casa dove, Roma, se non ci sei tu?