Correva l’anno 1989 quando si decise di demolire il Muro di Berlino, che dal 1961 teneva separate le “due Germanie”: la Repubblica Democratica Tedesca a est e la Repubblica Federale Tedesca a ovest.
E già un anno prima dal suo crollo, il Senato di Berlino Ovest annunciava un concorso per l’estensione del museo storico berlinese, da cui nell’aprile dell’89 il progetto del museo ebraico di Daniel Libeskind vedeva la vittoria.
“Between the Lines” era il titolo del progetto, che vedeva l’edificio come costruito per mezzo di una linea a zig-zag, raffigurante probabilmente una stella di David frammentata.
Esso prevedeva una completa revisione del Kollegienhaus, il palazzo barocco preesistente, concependo il nuovo museo separatamente dai restanti edifici dell’intera struttura museale.
“Il progetto […] era basato su tre concetti che hanno guidato la fondazione del museo: in primo luogo l’impossibilità di comprendere la storia di Berlino senza capire l’enorme contributo intellettuale, economico e culturale da parte del cittadini ebrei di Berlino, in secondo luogo, la necessità di integrare fisicamente e spiritualmente il significato dell’Olocausto nella coscienza e nella memoria della città. In terzo luogo, che solo attraverso il riconoscimento della cancellazione della vita ebraica a Berlino, la storia di Berlino e dell’Europa possono avere un futuro umano.”
– dalla relazione scritta di Daniel Libeskind
Difatti, la linea spezzata che compone l’intero edificio rappresenta la frammentarietà degli ebrei tedeschi e dei tedeschi stessi, che non possono pensare alla propria cultura separatamente da quella ebraica del paese.
Il museo, realizzato nell’arco di tempo tra il 1992 e 1999, è situato nella Lindenstraße, a pochi metri dal tracciato del muro. Considerato ancora oggi come il museo ebraico più grande di Europa, la sua costruzione si rivela simbolica e funzionale: l’architetto ci invita a riflettere sull’intera allegoria architettonica, mettendoci in stretta relazione con la storia ebraica. Di conseguenza, il nostro compito è quello di scrutare “tra le righe” dell’edificio, per poi passare al suo contenuto.
Principalmente, la pianta è formata da tre assi, che, sebbene divergenti, si intersecano rappresentando la storia ebraica nelle sue componenti principali: l’Asse dell’Emigrazione, l’Asse dell’Olocausto e l’Asse della Continuità. Ognuno di essi delinea la struttura dei corrispettivi corridoi ed esprime un tema specifico: l’Asse della Continuità, che rappresenta la speranza, conduce alle gallerie espositive; l’Asse dell’Emigrazione, ovvero dell’esodo forzato ebraico, conduce ai Giardini dell’Esilio e dell’Emigrazione, dove troviamo una serie di solidi in cemento alternati ad alberi. Qui, ogni solido è inclinato di 12° dalla verticale, per ricreare un senso di spaesamento e instabilità.
L’Asse dell’Olocausto conduce di conseguenza alla Torre dell’Olocausto, un lungo percorso di teche trasparenti contenenti gli averi delle persone tenute prigioniere dai nazisti.
Soprattutto bisogna considerare il collegamento tra l’Asse dell’Olocausto (oscurità) e l’Asse della Continuità (speranza): geometricamente opposti, il primo asse è dritto ma spezzato, mentre il secondo ha una forma irregolare e continua. Le linee così impostate prefigurano metaforicamente il drammatico percorso degli ebrei, interrotto bruscamente sulla strada dell’Olocausto ed assai alterato verso quella della speranza.
Nel punto d’incontro tra i due assi troviamo un vuoto: la “spina dorsale” dell’edificio, l’elemento base su cui vi poggiano tutte le discontinuità e le fratture. E’ un vuoto concepito come assenza, quella dei cittadini ebrei nel paese tedesco.
Ma qui non troviamo nessun angolo e nessuna prospettiva da cui trarre una comprensione omogenea dello spazio, difatti la struttura si può “leggere” solo per mezzo di uno sguardo esterno, analizzando attentamente i molteplici assi e incavi.
Anche le finestre danno il loro tocco irregolare: le spaccature permettono di scorgere una veduta della città, attraverso forme geometricamente insolite e discontinue.
Il museo di Libeskind si impone quindi di rovesciare le premesse ideologiche dell’architettura: al contrario dei “classici” edifici che ci rassicurano, infondendo ordine e stabilità lineare e razionale, il museo berlinese ha come unico interesse quello di accrescere in noi la consapevolezza riguardo alla Shoah, a partire dalle sembianze del posto in cui ci troviamo.
La visita al museo comporta per cui un’esperienza fisica, che immerge lo spettatore in una profonda riflessione sul passato, attraverso ogni elemento architettonico: il pavimento segue una traiettoria incerta, che ci fa camminare su piani alti e poi bassi, e ancora stretti e di seguito ampi, guidandoci verso il ”vuoto”, gli “abissi” e verso varie stanze cupe e anguste, che riecheggiano quelle allora abitate dalle vittime ebree.
Considerando l’osservazione di Andreas Huyssen, professore e teorico tedesco (Düsseldorf, 1942), l’antimonumentalità rimane l’unica caratteristica in grado di esprimere visivamente la questione dell’identità nazionale e locale della Germania riunificata.
In occasione dell’appello al Bunderstag tenutosi il 9 Novembre 1985, l’allora Presidente Richard von Weizsäcker ribadì di mantenere viva la memoria dei fatti della Seconda Guerra Mondiale, per poter garantire più efficacemente una democrazia futura. Definì inoltre “Ora Zero” (Stunde Null) la giornata dell’8 Maggio 1945, data della caduta del regime nazista e della fine della guerra.
Su questa premessa, il nuovo governo successivo alla riunificazione (1982-1998) guidato da Helmut Kohl favorì un nuovo approccio al passato tedesco, a differenza della Germania Ovest durante la Guerra Fredda, che assunse l’attitudine all’occultamento, seppur nel tentativo di liberarsi dal senso di colpa.
Il 27 Gennaio di ogni anno si celebra il Giorno della Memoria per commemorare la stessa giornata del 1945, quando le truppe dell’Armata Rossa, impegnate in un’offensiva in direzione della Germania, liberarono il campo di concentramento di Auschwitz.
Ed ogni anno siamo sempre più consapevoli che sarebbe impossibile cancellare un ricordo di tale portata.
Al museo ebraico, Libeskind ci racconta il forte significato che hanno assunto le vite di tutte quelle persone ingiustamente perseguitate, odiate, private di tutto, ma che ancora oggi vivono, si riaffermano e comunicano attraverso la propria storia, che vediamo emergere anche qui, dalle mura e dai puri elementi architettonici.