Paradossalmente, quando pensiamo al lifestyle delle odierne metropoli, le prime immagini che ci vengono in mente, in maniera nitida e definita, sono riconducibili al concetto di caoticità.
Nervosi sciami multietnici di persone stressate infestano le strade come fantasmi (profetico fu Sera sul viale Karl Johan di Munch), vittime della propria routine, e contemporaneamente vigili nei confronti de “l’altro”, in un miscuglio di sospetti, apprensioni e purtroppo ultimamente anche di attentati.
Fra le tanti descrizioni della Venezia/Palmira del Nord, da Tolstoj in Anna Karenina a Dostoveskij in Delitto e Castigo, la (San) Pietroburgo descritta da Belyj nel 1914 sembra essere quasi una proiezione di quella odierna evocata da uno “stregone bianco”. Lo pseudonimo “Andrej Belyj” fu scelto infatti dal poeta e scrittore simbolista (al secolo Boris Bugaev) per le analogie, oltre che con l’apostolo ortodosso Andrea, con il colore “bianco”, in russo per l’appunto belyj (белый ), simbolo di magia e saggezza.
I nevrotici personaggi alla ricerca di un’identità pullulano la Pietroburgo di Belyj spargendosi come specchi rotti e spesse linee frammentate senza ordine che sembrano ricordare quadri e scenografie espressioniste (La città de Il dottor Caligari su tutte).
Il principale nucleo narrativo del romanzo si sviluppa attorno all’incarico segreto affidato dall’estremista Dudkin al giovane “sardanapalo” Nikolaj Apollonovič Ableuchov, avvicinatosi ad una cellula terroristica più per divertimento che per convinzione. Proprio quando a Nikolaj viene rivelato che l’obbiettivo del “colpo terroristico” sarà suo padre, il senatore Apollon Ableuchov, le proiezioni mentali del giovane cominceranno a prendere vita e mischiarsi nevroticamente con gli abitanti della città. Così il peso di un possibile parricidio si incarna nella densa nebbia della (oggi ex) capitale russa assieme agli altri timori che assillano la mente del giovane: un amore libertino e impossibile dal sapore teosofico (ovvero la Sofia di Solov’ëv), la società di massa e il possibile fallimento della rivoluzione.
In Pietroburgo Belyj mette in scena l’eterno dualismo che caratterizza (e talvolta affligge) tutt’ora la Russia. Il romanzo presenta costantemente “fratture insanabili” non limitandosi al solo e lampante conflitto tra le due capitali Pietroburgo (capitale “ad arte”) e Mosca (capitale storica), o alla spartizione territoriale della Russa spezzata tra occidente/Europa e oriente/Asia. Con sapienza sciamanica, Belyj alterna di continuo un qualsiasi polo tematico per farlo collidere con il suo opposto. Niente viene risparmiato. La caotica città di Pietroburgo mischia in un’orgia carnevalesca sacro e profano, per poi spostarsi nello scontro fra slavofili e occidentalisti a livello “dialettico-filosofico” e generazionale con l’incomunicabilità fra padri e figli (allegorie di Ottocento e Novecento), e qui Turgenev gongolerebbe senz’altro. Il ritmo implacabile di Belyj procede spedito in una scrittura molto simile alle tripodie dei suoi versi fino a penetrare le dicotomie più universali: Stato – individuo, uomo – donna, sole – luna.
Ancor più dei moderni skyline, la perfezione geometrica di San Pietroburgo (passeggiare lungo la prospettiva Nevskij è un’esperienza unica), città fatta costruire come grande vetrina imperiale per l’occidente dallo zar Pietro, nasconde all’interno del suo nucleo pulsante un magma caotico e inarrestabile, alimentato dalle paure che rendono realtà ombre cinesi, bilocazioni, sdoppiamenti e ogni sorta di stregoneria.
Pietroburgo, un poema d’ombre, Angelo Maria Ripellino in Pietroburgo, Milano, Adelphi, 2014
Storia della civiltà letteraria russa, vol. II Torino, UTET 1997