La celebre casa di moda Benetton, originaria di Treviso, nel 1991 ha acquistato, per la modica somma di 50.000 dollari, 900.000 ettari di terre in Patagonia: in questo territorio si allevano attualmente oltre 100.000 capi di bestiame, che producono annualmente il 10% della pregiata lana impiegata dai Benetton per la loro produzione tessile. Fin qui non ci sarebbe nulla di anomalo. Il dato che, però, sconcerta e che ha causato un pericoloso effetto domino è il fatto che, acquistando quelle terre, i Benetton abbiano sfrattato i Mapuche, cui parte di quella terra appartiene e spetta.
Mapuche è un termine composto dalle parole “Mapu” (della terra) y “Che” (popolo): esso designa un popolo indigeno che ha abitato la Patagonia dal ‘600 alla fine dell’800, subendo innumerevoli persecuzioni e finendo decimato dagli argentini. Attualmente i Mapuche vivono divisi fra Argentina e Cile. La comunità indigena, che consta di un numero ormai relativamente ristretto di persone, si è vista allontanare dalla propria terra natìa: la storia, purtroppo, si ripete.
I Mapuche hanno tentato, nel corso degli anni, di rivendicare pacificamente il loro diritto a vivere in una parte delle terre acquistate dal gruppo Benetton che, per tutta risposta, ha tentato di tirarsi fuori dall’impaccio attraverso concessioni di breve durata e decreti giudiziari. A questo punto quella che è iniziata come una protesta si è tramutata in una vera e propria invasione: riuniti in gruppi, negli ultimi due anni i Mapuche hanno occupato delle aree del territorio interessato e costituito dei piccoli villaggi. L’occupazione da parte della comunità indigena si è estesa, col tempo, ad aree progressivamente più ampie.
La famiglia Benetton ha deciso, quindi, di agire: inizialmente la via prescelta è stata quella della mediazione, di cui, seppur indirettamente, si è occupato Carlo, il fratello più giovane della famiglia. Ma, anche in questo modo, gli indigeni non si sono lasciati smuovere e sono passati a degli atti di sabotaggio: hanno appiccato qualche incendio, spaventato i capi di bestiame e preparato delle difese artigianali con cui pattugliare le loro terre.
I Benetton hanno optato, a questo punto, per le vie legali, affidandosi allo stato argentino: quest’ultimo, tuttavia, pur concordando con gli industriali tessili sul fatto che la risoluzione della questione spettasse al Cile – da cui gli indigeni sono giunti – ha assunto l’atteggiamento di cunctator, ha preso cioè tempo. E perché avrebbe dovuto prendere tempo? Perché la Costituzione argentina riconosce ai Mapuche una parte delle terre acquistate dai Benetton. La questione, perciò, è diventata spinosa.
Il governo argentino, nel frattempo, ha fatto intervenire i corpi di polizia, che si sono trovati di fronte ad una resistenza imprevista: la questione, infatti, ha assunto intanto rilevanza nazionale, coinvolgendo le ONG che lottano in favore dei diritti umani.
Gli scontri fra polizia argentina ed indigeni sono diventati sempre più accesi, con numerosi arresti fra Bariloche, Esquel e El Bolsón. Si parla di vera e propria guerriglia, con numerose accuse di eccessiva violenza rivolte alla polizia argentina ai danni degli indigeni, contro cui sono stati impiegati mezzi – fra i quali proiettili di gomma e sassaiola – che si è tentato di smentire. Poi l’1 agosto 2017, durante l’ennesimo scontro fra Mapuche e forze di polizia, è scomparso Santiago Maldonado, un giovane della provincia di Buenos Aires che alcuni testimoni avrebbero visto per l’ultima volta sulle rive del fiume Chubut, nell’atto di arrendersi agli agenti che lo stavano inseguendo. Da quel momento si sono perse le tracce del giovane ventottenne che, dopo aver girato in lungo e in largo l’Argentina con lo zaino in spalla, aveva raggiunto la comunità Mapuche Pu Lof – stanziatasi in una parte dell’area Benetton dal 2015 – alla fine del luglio di quest’anno.
La scomparsa del giovane, di cui si è parlato sui notiziari e che ha generato numerose proteste, ha riacceso la tempestosa quanto delicata questione dei desaparecidos dell’epoca della dittatura militare argentina (1976-1983), quando chi si opponeva allo status quo veniva arrestato per poi scomparire nel nulla. La foto di Maldonado, con la barba scura e lo sguardo vivace, è stata diffusa tramite i social media con l’hashtag: “Dov’è Santiago Maldonado?”.
La sua scomparsa ha scosso anche la politica argentina, che stava concentrando i propri sforzi nelle elezioni che si sarebbero tenute il 22 ottobre. Il governo di centro-sinistra del presidente Mauricio Macri ha subìto le conseguenti pressioni del caso, che è stato, fra l’altro, sfruttato dall’ex presidente dell’Argentina Cristina Fernández de Kirchner – principale avversario di Macri – per attaccare l’attuale presidente.
L’attesa è durata circa ottanta giorni, poi il cadavere del giovane Maldonado è stato ritrovato proprio nel fiume Chubut. L’autopsia, cui hanno preso parte ben 55 elementi fra tecnici ed esperti, ha seguito una particolare procedura, chiamata “Protocollo di Minnesota”:
«È una procedura che si usa a livello internazionale per stabilire se i cadaveri rinvenuti sono stati vittime di qualche esecuzione extragiudiziaria. Se cioè sono stati colpiti, torturati e poi fatti fuori senza lasciare tracce evidenti che possano far parlare di omicidio», come scrive Repubblica.
Maldonado, assieme agli indigeni, l’1 agosto stava bloccando una strada nella provincia meridionale di Chubut: la protesta era motivata dall’arresto del leader dei Mapuche, Facundo Jones Huala, di cui si chiedeva la scarcerazione.
Jones Huala è in carcere da più di dodici mesi per possesso illegale di armi da fuoco in Argentina, la quale si rifiuta di estradarlo e consegnarlo al Cile. Il leader dei Mapuche è un giovane di trent’anni, simbolo della lotta per quello che viene definito “Paradiso perduto”; è stato catturato dopo aver latitato per qualche settimana ed è ora rinchiuso nel carcere di Esquel – distante circa 1800 km da Buenos Aires – in attesa di essere estradato, appunto, in Cile. In carcere ha cominciato uno sciopero della fame e ha rilasciato delle interviste riguardo a quello che sta accadendo alla sua comunità, come si riporta su Repubblica:
«Siamo stanchi […] dell’oppressione, del furto delle nostre terre; siamo stanchi che ci ammazzino e ci arrestino quando vogliono. Il mio grido di resistenza ha generato nuova speranza tra la gente che ha iniziato a mobilitarsi per recuperare ciò che è appartenuto ai nostri antenati».
Quella dei Mapuche è una rivendicazione fuori dal tempo? In tutta questa sequela di reazioni a catena che hanno fatto degenerare la situazione, i Benetton, comunque, non sembrano uscirne a testa alta.