LO SGUARDO OBLIQUO NEL ROMANZO: “IO NON HO PAURA”

Chiunque si accinga a raccontare una storia sa bene che uno dei problemi principali in cui un autore necessariamente si imbatte è quello del punto di vista. Spesso, infatti, il narratore avverte la necessità di porre uno schermo tra sé stesso e la materia narrata: questo può avvenire per evitare lo scivolamento nell’autobiografia, oppure semplicemente perché, per raccontare certi tipi di storie, uno sguardo inusuale, obliquo, può conferire alla scrittura una maggiore efficacia narrativa.

Uno “sguardo obliquo” che si è rivelato congeniale a dei grandi romanzi del Novecento e non,  è quello del bambino/adolescente. Perché? Semplice: il punto di vista del bambino, solitamente ingenuo ed estraneo alla crudezza della realtà, permette la trattazione di argomenti scomodi, la cui scrittura, quando affidata a una penna “adulta”, rischia di essere difficoltosa e pesante. In questo modo, invece, la guerra, la morte, lo stupro, vengono affrontati in modo del tutto particolare, certamente non meno sconvolgente: il lettore adulto sa infatti perfettamente riconoscere l’atrocità degli eventi filtrati dagli occhi del bambino, la cui innocenza di fronte alla cattiveria dei grandi acuisce l’angoscia e la partecipazione emotiva del lettore.

Ci serviremo di un esempio letterario molto celebre: Michele Amitrano, il piccolo protagonista del famoso romanzo di Niccolò Ammaniti “Io non ho paura”. La storia è ambientata in un paesino inventato del sud, dove Michele passa le giornate estive giocando con gli altri bambini e girando in bicicletta. Un giorno una scoperta casuale cambierà la sua vita: un bambino vittima di rapimento, Filippo, è stato nascosto in un buco, e ben presto Michele capisce che a far questo sono stati il suo stesso padre con altri adulti del paese. Deciso a salvare il bambino, Michele riesce infine a farlo scappare, ma per farlo viene ferito dal padre che, giunto nel buco per uccidere il bambino, spara alla gamba del proprio stesso figlio.

Ciò che colpisce di questo romanzo, non a caso fortunatissimo, è l’autenticità dei pensieri e delle sensazioni di Michele nei quali ognuno di noi può vedere riflesso il proprio antico, superato lato infantile. La storia è narrata davvero come farebbe un bambino, con gli stessi slanci di ingenuità, di paura (si pensi ai mostri che tormentano l’immaginario di Michele) ma soprattutto con la sottolineatura di un lato tipico dei bambini che scarsamente si preserva negli adulti: un’umanità autentica e immotivatamente altruista, libera da cause e finalità. Perché Michele vuole salvare il bambino, se per farlo è costretto ad affrontare mille paure e ostacoli spaventosi? Un motivo di fondo non è mai esplicitato nel romanzo. Semplicemente, Filippo ha nove anni come lui, fa la quarta, e può essere un amico. La conclusione del romanzo, con la frustrazione del padre di Michele, non poteva rivelare in modo migliore come i due bambini siano intercambiabili, e come uccidere (quasi) il figlio di un altro non sia poi tanto diverso da uccidere il proprio.

 


 

FONTI
“Io non ho paura”, Niccolò Ammaniti, Einaudi 2001


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