Nella storia dell’arte un solo anno può fare la differenza. In un anno può mutare il linguaggio di un artista, i temi a cui è interessato e le idee che lo muovono.
È il caso di Umberto Boccioni (1882-1916) e del periodo che vive tra il 1911 e il 1912.
Durante quest’arco di tempo relativamente breve, il pittore allora quasi trentenne sviluppa profondamente il proprio stile. Tale modifica si può osservare in tutte le opere risalenti a quegli anni, ma meglio ancora si può notare in due trittici creati per l’appunto nel 1911 il primo, e nel 1912 il secondo. Si tratta degli Stati d’animo, conservati rispettivamente al Museo del Novecento di Milano e al MOMA di New York.
Nel 1911 Boccioni ha ventinove anni e tutta una serie di spostamenti in territorio nazionale ed internazionale alle spalle. Nato in Calabria, trasferitosi con la famiglia in Emilia-Romagna dove trascorre l’infanzia, si sposta poi a Genova e Padova, sempre in compagnia della famiglia.
Nel 1901 si trasferisce a Roma, dove conosce Gino Severini, Giacomo Balla e Mario Sironi. Nel 1906 visita Parigi e la Russia e nel 1907 arriva a Milano, dove si stabilisce e si avvicina al movimento divisionista, risentendo fortemente dell’influsso di Gaetano Previati.
Nel 1910 firma il Manifesto dei pittori futuristi assieme a Filippo Tommaso Marinetti, Balla, Carlo Carrà, Luigi Russolo e Severini.
Da questo momento la sua pennellata si allontana da quella divisionista, i soggetti cambiano e lo stile muta in direzione futurista.
Il confronto tra il primo e il secondo trittico degli Stati d’animo mostra quanto velocemente stesse cambiando lo stile del pittore, quasi ad imitare la velocità delle macchine che lui e i compagni futuristi ammiravano tanto.
Una tappa fondamentale per questo cambiamento repentino è il viaggio che Boccioni compie a Parigi alla fine del 1911, dopo aver dipinto la prima versione del trittico degli Stati d’animo. A Parigi vede Picasso e assorbe la lezione cubista, che riproporrà nella seconda versione del suo trittico, interpretandola.
La scelta di utilizzare un trittico piuttosto che una singola tela permette all’artista di mostrare più momenti contemporaneamente, di concatenarli in un’unica esposizione in cui le vicende e le emozioni si sovrappongono.
Come soggetto, Boccioni ne sceglie uno tipico della lezione futurista: la stazione ferroviaria.
L’ambiente è perfetto in quanto esempio cardine del ruolo che le macchine e il progresso hanno nella vita dell’uomo. Oltre a questo motivo, l’artista lo sceglie anche perché è uno dei luoghi dove è più facile lasciarsi andare alle emozioni, ed è facile osservarle negli altri. Boccioni era infatti interessato nel realizzare una pittura di stati d’animo. Intendeva realizzare delle tele che fossero delle trascrizioni fedeli sotto forma di linee e colori delle emozioni che si provano in determinate situazioni.
Il trittico degli Stati d’animo è infatti stato preceduto da un altro realizzato nel 1910, composto da Il lavoro (la città Sale), Il lutto e La risata, in cui l’artista individua per la prima volta l’emozione come soggetto dell’opera.
Gli Stati d’animo muovono quindi da una riflessione precedente, sviluppandola rappresentando tre momenti legati.
Prima di tutto il momento del saluto, dell’arrivederci, di due persone che sono ancora insieme, ma di lì a poco non lo saranno più (Gli addii). La seconda tela si concentra sulla difficoltà di lasciare il luogo amato, forse la propria casa (Quelli che vanno), e l’ultima osserva chi non parte e deve fare i conti con il saluto (Quelli che restano).
Il primo trittico è ancora insicuro nella resa, i soggetti sono poco definiti e la composizione è tutta basata sull’espressione data da linee e colori.
La prima versione de Gli addii è quella dalla quale il pittore si allontanerà di più nella seconda versione. Nel 1911 è un’opera quasi espressionista, con colori contrastanti, ma scialbi, stanchi e malinconici come le persone che si stanno abbracciando nella tela.
Nella versione del 1912 invece, abbandona la sintesi della forma. I soggetti sono distrutti cubisticamente. Ci sono di nuovo gli abbracci che i personaggi si scambiano sulla banchina e c’è la locomotiva con il suo fumo bianco e il numero in bella vista sulla tela.
È chiaro come il cubismo abbia influenzato l’occhio dell’artista, che indagando nuovamente il soggetto si ritrova a restituirlo in modo totalmente nuovo, più approfondito e preciso.
La stessa cosa accade per la seconda tela, Quelli che vanno.
La prima versione è tutta basata sulla resa della velocità, data dalle linee diagonali che tagliano la tela. Si intravede un paesaggio con delle abitazioni, che si può osservare dal treno in movimento, e tutta la tela è incentrata sulla resa del movimento, tema che i futuristi amavano profondamente.
Nella seconda versione i colori sono simili, con una preponderanza di blu. Anche in questo caso i soggetti sono controllati dalle linee verticali della velocità, che dominano tutta la tela; ma si nota di nuovo l’influsso del cubismo, soprattutto sui volti dei personaggi, scomposti e visti contemporaneamente da più angolazioni.
La tela che chiude il trittico, Quelli che restano, è la più pesante delle tre, emotivamente parlando.
In entrambe le versioni è stata elaborata seguendo la stessa riflessione: chi resta dopo aver salutato un affetto senza averlo potuto seguire si sente abbattuto, scoraggiato e abbandonato. Le linee e il colore scelti da Boccioni riportano esattamente queste emozioni: la tela è quasi monocroma, realizzata con toni freddi e depressi come gli animi di chi resta. Le linee sono verticali e pesano sulle spalle delle ombre che sono dovute rimanere alla stazione.
Nella prima tela i personaggi sembrano quasi dei fantasmi, tanto risultano stanche e abbattute le loro sagome.
Nel secondo caso la scena si ripete, i personaggi marciano stanchi e depressi verso un punto lontano dalla stazione, e qui le linee verticali diventano delle lame, che feriscono gli animi.
Ritornare sullo stesso tema e sugli stessi soggetti seguendo la medesima impostazione di pochi mesi prima avrebbe potuto essere un rischio, ma Boccioni era chiaramente consapevole della forte modifica che il proprio linguaggio aveva subìto, ed è riuscito a creare delle tele con i medesimi soggetti, ma completamente differenti dalle precedenti.