PLOT OPERA: WERTHER, NATALE ROSSO SANGUE

Di Ilaria Zibetti

Dicembre è il mese delle feste: dalla Vigilia fino all’Epifania tutti sono impegnati nei raduni coi parenti, nei lauti pasti, nello scambio di doni e auguri. Un periodo caratterizzato dalle risate, dai buoni sentimenti, dalla gioia… o forse no.

Il paradosso delle feste è che proprio in mezzo a tanta allegria, abbondanza e affetto, può annidarsi un profondo malessere. Non tutti hanno la fortuna di poter trascorrere questo periodo senza pensieri, afflitti da problemi economici, di salute o di altra natura. Anche sentimentali. La solitudine e la miseria (materiale o emotiva) si acutizzano davanti al gaudio generale, portando a volte le persone particolarmente fragili o disperate a compiere atti estremi.

Nell’Opera questo purtroppo accade a Werther. In questo articolo non mi soffermerò sui dettagli della trama quanto sulle riflessioni che essa porta.

Basandosi sulla drammatica storia nata dalla penna dello scrittore J. W. Goethe – “I dolori del giovane Werther” –, il compositore francese Jules Massenet creò un’opera dal semplice titolo “Werther”, andata in scena per la prima volta il 16 febbraio 1892 presso l’Hoftheater di Vienna.

La vicenda ricalca quasi fedelmente il famoso intreccio steso dall’autore: l’incontro tra i due protagonisti, Werther e Charlotte, durante un ballo estivo verso la fine del Settecento; la scintilla che deve essere repressa in quanto la ragazza è già promessa a un altro, Albert; la sofferenza di entrambi per questa passione che non può essere né espressa né sfogata soprattutto per motivi sociali.… un dolore talmente acuto che porterà il giovane a decidere di togliersi la vita proprio durante il periodo natalizio, dopo aver passato diversi mesi lontano dalla città.  Questi sono anche gli snodi principali della trama, incorniciati da melodie delicate e raffinate alternate ad affondi travolgenti e struggenti. Basti pensare all’aria più celebre affidata al protagonista: “Pourquoi me réveiller?” [“Ah, non mi ridestar”], in cui Werther legge ad alta voce a Charlotte un componimento del poeta celtico Ossian, servendosene come metafora per raccontare la propria malinconia interiore.

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Il tormento di Werther è squisitamente di stampo sentimentale che si dirama poi in questioni esistenziali. L’impossibilità di essere amati, di avere una reciprocità affettiva diventa sorgente di dubbi sulla validità della propria esistenza: se siamo fatti per amare, perché se ne viene privati? Perché le leggi dell’uomo ostacolano la Natura – spesso evocata come una Madre a cui ritornare in un’ottica opposta a quella leopardiana – creando implicazioni morali castranti? Una vita dilaniata in tal senso può essere vissuta?

La frustrazione deriva allora non solo dal sentimento ma anche dalle implicazioni che esso comporta a livello comunitario, considerando che l’epoca d’ambientazione era alquanto ferrea. Eppure anche oggi l’occhio sociale è implacabile nel sottobosco culturale, nonostante siano stati raggiunti dei diritti personali e siano stati sdoganati diversi tabù. Werther col suo canto chiede a gran voce la libertà di amare e di scegliere. Un amore non in senso libertino bensì come spontaneo e puro appagamento nel rapporto con l’altra persona, alla ricerca di se stessi in virtù del confronto con essa, sciolti da convenzioni e costrizioni inutili e avvilenti. Temi  potenti, romantici, universali e quasi ribelli se non fosse per il finale che rappresenta il soffocamento di questo grido di libertà. Werther, data la sua ipersensibilità, non fu in grado di trovare altri strumenti o supporti in grado di fargli affrontare la propria sofferenza. Data la spiccata natura verosimile della vicenda il romanzo epistolare di Goethe, quando fu pubblicato nel 1774, causò un fenomeno spiacevole ma significativo del disagio dei ragazzi: l’emulazione del gesto estremo del protagonista come imposizione di sé in un mondo in cui tutto veniva prestabilito da altri. Ci fu un incremento terribile di suicidi giovanili, tanto forte fu l’immedesimazione con la storia raccontata.

Ricollegandoci all’affermazione iniziale, non è difficile immaginare quanto un simile stato al limite della depressione e dell’avvilimento possa risentire del contrasto dovuto alla gioiosità che caratterizza il Natale. Nell’Opera il sentore di morte futura si manifesta in maniera insospettabile: il Podestà (padre di Charlotte) cerca nel primo atto di insegnare ai propri figli – un bel gruppetto di voci bianche – un canto natalizio. Altro che maschera, pinne e boccaglio, si potrebbe dire, considerando che in quel lasso temporale sono ancora a Luglio. Il tema però intonato dai piccoli verrà ripreso identico, ma in tono assai più drammatico, sul finale, nel momento in cui Werther spira tra le braccia dell’unica donna che abbia mai amato dopo essersi sparato. Charlotte stessa coglie la stridente presenza di quella letizia celebrata in lontananza, proprio in un istante così tragico, esclamando: “Ah! C’est chant!!” [“Ah, quel canto!”] Come se implicitamente chiedesse alla Vita di tacere davanti alla Morte. Il risultato di questa idea musicalmente geniale è quasi una beffarda ironia: l’esistenza, le convenzioni, i riti… vanno sempre avanti, incuranti di un’anima che soffre e che, nell’ambascia, viene meno perché la Vita è inarrestabile davanti alle miserie umane. Starebbe all’uomo accorgersi della sofferenza del prossimo e far sì che la storia prenda un’altra piega. Purtroppo sappiamo che non capita spesso.

Questa vicenda però non deve trasmettere il messaggio che la gioia sia male, che non bisogna prendere del tempo per rendersi conto delle proprie fortune e della riconoscenza verso il prossimo con una festa. Tutt’altro! È necessario però ricordarsi che al mondo esiste anche il dolore e che bisogna portare rispetto per coloro che, anche in questo periodo, si sforzano di vedere la luce, mostrano un sorriso o compiono un semplice atto di gentilezza.  Insomma: no respect no party.

FONTI

J. W. Goethe – I dolori del giovane Werther – Ed. Mondadori

Emg – Enciclopedia della musica Garzanti, 1996 ristampa aggiornata

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