“May 30-31. Exhibition, non-exhibition. An evening conversation that explores the dynamics of the “exhibitable” and the construction of publicness in the spirit of Robert Smithson’s “site/non-site”. From non-site to site, from non-exhibition to exhibition, what is the topos of exhibition/non-exhibition in the crowded moments of the mega exhibition?”
Una giornalista americana chiede spiegazioni al curatore di un museo in merito ad uno statement da lui recentemente pubblicato, confessando onestamente di non capire il vocabolario ermetico ed autoreferenziale della teoria d’arte. Così si apre una delle scene iniziali del film svedese “The Square”, la cui sceneggiatura affilata e caustica svela sin dai primi momenti uno dei suoi nuclei costitutivi: lo sguardo beffardo nei confronti del sistema museale contemporaneo, dei suoi giochi linguistici e delle sue cliques di potere. È la prima volta che il regista svedese Ruben Östlund si dedica a un film interamente ambientato e radicato nel mondo dell’arte contemporanea, un tableau vivant di tipi e figure che, ciononostante, dà prova di conoscere nei più intimi e scomodi dettagli. Östlund ha infatti confermato in numerose interviste di essersi fatto ispirare da eventi e personaggi reali del jet set culturale contemporaneo, da artisti di fama internazionale e dallo stesso Moderna Museet di Stoccolma. Non sembra però necessario, a quanto pare, essere dei dotti conoscitori dell’arte contemporanea per apprezzare il film nella sua globalità. Esso si dispiega infatti come un intreccio di storie ed episodi, leggibili su livelli diversi: se alcune scene, infatti, hanno il ritmo di una comicità elementare e meno impegnativa, che fa ridere il pubblico medio, altre, più pungenti, ermetiche e meno immediatamente comprensibili, fanno sorridere con amarezza chi in questo ambiente ci lavora, e conosce i nodi e le ferite aperte che Östlund esacerba e addita senza timore.
Il titolo “The Square” riprende il nome dell’opera d’arte appena acquisita dal museo in cui lavora Christian (Claes Bang), curatore principale. Il lavoro dell’artista argentina Lola Arias è costituito dal perimetro di un quadrato, segnato sui sampietrini del piazzale antistante il museo, uno spazio potenziale all’interno del quale ogni persona gode “di eguali diritti e doveri”. È quindi un messaggio di positivo “Umanesimo” quello che vuole comunicare l’opera, resa centro simbolico del film: per essa Christian organizza infatti una nuova mostra, che si propone di mettere in discussione le convinzioni e i pregiudizi del visitatore medio del museo, inneggiando alla creazione di luoghi di altruismo e generosità. A questo esempio formale di democrazia e ascolto si contrappongono, in qualche modo, le azioni dei personaggi e gli eventi che si susseguono nel film. Östlund porta infatti in scena le occasioni più grottesche e i comportamenti più ipocriti e decisamente anti-empatici cui si può assistere “dietro le quinte” del business museale: la necessità di beneficiare del denaro di collezionisti e mecenati, le prese d’assalto dei buffet alle inaugurazioni, artist-talk come occasioni celebrative dell’ego dell’artista, responsabili di marketing e PR con la sola intenzione di attirare visibilità commerciale, sprechi di denaro e altri cinismi. Tutti gli scheletri nell’armadio del sistema contemporaneo vengono portati alla luce nella tragicommedia di Östlund, ed è difficile, spesso, decidere se lasciarsi andare ad una sonora risata, riconoscendo la satira e l’esagerazione di una scena, oppure se prendere terribilmente sul serio lo sguardo critico del regista. La provocazione e la presa in giro, infatti, sono lo strumento preferito del film: lo si capisce dalle scene girate all’interno del museo, in cui Östlund fa posizionare opere-cliché emblematiche dell’arte contemporanea, come scritte al neon, testi, cumuli simmetrici di cenere sul pavimento che l’addetto alle pulizie per poco non distrugge (tipica gag comica).
Particolare nell’intreccio del film è la figura di Christian: se, infatti, nella sua vita professionale dimostra una totale padronanza del suo mestiere, del suo lessico iper-raffinato ed ermetico da scuola curatoriale, nella sua vita privata è animato da dubbi, tensioni, indecisioni e comportamenti infantili. Nel momento in cui, una mattina, viene distrattamente derubato di portafogli e cellulare, Christian si ritrova a prendere decisioni che lo intrappolano in un vortice di eventi inaspettati e non lusinghieri, non riuscendo comunque mai ad assumersi le proprie responsabilità e le proprie colpe. Il grande universo entro cui Christian si muove, quello delle dinamiche di potere museali ma, in generale, di un sistema culturale che si diletta nella sua campana di vetro senza reali contatti con altre problematiche civiche o sociali, è il panorama che Östlund ci mostra, con seria ironia.
Ma che ne è dell’artista, quella figura in realtà fondamentale e imprescindibile, senza il quale l’intero sistema dell’arte, a lui circostante, non esisterebbe? Che ne è, in realtà, dell’arte stessa in questo ritratto dissacrante e satirico di un sistema perso nei suoi stessi meccanismi? Le opere d’arte presenti nel film giocano quasi il ruolo di pezzi di design, fungono da accessori d’arredamento nelle circostanze sterili e ciniche in cui appaiono, dal white cube museale alla casa stessa di Christian (dove, fulmineamente, si vede un “Omaggio al quadrato” di Josef Albers spuntare nella sala d’ingresso). L’opera “The square”, esibita nella piazza del museo, non viene mai concretamente “attivata”, nella realtà quotidiana, da chi passeggia, dal cittadino qualunque: rimane quindi spazio infecondo, la cui verbalizzazione diventa l’unico fenomeno fondamentale a scapito della sua fisica, reale esperienza.
Alla figura dell’artista viene dato spazio nel film in due declinazioni. Il primo che si incontra è Julian (Dominic West), una figura molto sicura di se stessa, che gode appieno del suo status quo di intellettuale privilegiato e integrato nella dinamiche museali, di cui parla il linguaggio codificato. L’altro artista, che fa irruzione nell’intreccio filmico in una delle scene più memorabili ed emotivamente intense, è Oleg. Alla fine di una cena di gala del museo, che ospita collezionisti, mecenati e potenziali nuovi investitori e finanziatori, le luci si abbassano e viene annunciato l’inizio di una performance, in cui il pubblico si troverà a confronto con un “animale selvaggio“. Quest’animale non è altro che Oleg, performer nei panni di un orango tango, che salta sopra ai tavoli eleganti e disturba beffardamente, insistentemente, a tratti aggressivamente questa nuova sorta di aristocrazia culturale, cogliendola in contropiede. Oleg non parla durante la sua performance, ma mugugna e ulula come un vero animale, quasi disfandosi violentemente di quel lessico accademico che anestetizza queste occasioni formali. L’animalità dei versi sconnessi e primordiali di Oleg (una finzione registica che però si rifà precisamente al performer Oleg Kulik, che nel 1996 creò uno scandalo del tutto simile durante una mostra a Stoccolma) si oppone con forza simbolica allo sproloquio pseudo-intellettuale di certi discorsi artistici, di quel “corporate bullshit” (come lo chiama Östlund) che atrofizza la discussione in una ripetizione di schemi fissi. Interpretato magistralmente dall’attore e stuntman Terry Notary, Oleg è forse, a mio avviso, l’unico grido violento, disperato ma lucido di una forza artistica che non si fa sottomettere ai giochi autoreferenziali e alle gerarchie di potere, che non si fa fagocitare dalla grande macchina dell’impresa culturale ma rimane libera di parlare il proprio linguaggio: nell’ilarità isterica e nell’inquieto disagio che si crea nella sala, la performance di Oleg svela, con un’aggressività quasi bambinesca, la ridicolezza di un sistema di menzogne, sul cui senso più nessuno si interroga.
Inanellando una dopo l’altra una serie di situazioni tragicomiche, ai limiti del verosimile, ma così amaramente specchio di una realtà culturale esistente, Ruben Östlund riesce a farci ridere a volte fragorosamente, ricordandoci vizi, peccatucci e presunzioni di un sistema artistico quasi alla deriva, senza farsi mai prendere troppo sul serio.
“The Square” (Svezia, 2017) ha vinto la Palma d’Oro al Festival di Cannes 2017. È uscito nelle sale italiane il 9 novembre ed è tuttora distribuito da Teodora Film.
FONTI
Monopol – Magazin für Kunst und Leben, Nr. 11/2017, pp. 42-45