Un attore trasparente: “Bestie di scena”

“Bestie di scena”, regia di Emma Dante, torna in scena al Piccolo Teatro Strehler per la stagione 2017/208, pronto a riproporre l’inevitabile fluire di interrogativi per un pubblico disposto a mettersi in discussione. Uno spettacolo che stravolge il punto di vista comune, crea una profonda relazione tra attori e pubblico e stabilisce un’intimità, grazie all’utilizzo del peculiare costume che caratterizza lo spettacolo: il nudo.

La pièce si apre con gli attori che, in scena, mostrano al pubblico il loro riscaldamento e percorso di training: il tutto avviene ancora a luci accese, provocando scompiglio nello spettatore che è indeciso tra il seguire con attenzione ciò che avviene, o aspettare lo spegnimento delle luci. In seguito gli attori, inaspettatamente, si recano in proscenio, a turno posano i vestiti e rimangono completamente nudi. L’impatto con i corpi nudi è allucinante. Ben presto si comprende come in scena non ci siano più gli attori di poco prima: il palcoscenico si trasforma in una prigione, popolata da corpi di uomini degradati allo stato primitivo, quasi animalibestie, appunto. Non possono scappare dall’Inferno che viene costruito intorno a loro, ma reagiscono soltanto a ordini imposti dall’alto. Ciascun personaggio si sente attratto da uno solo tra gli impulsi inviati dall’esterno e, dopo averne compreso l’essenza, trova un’interazione e un metodo di lavoro.

Il processo di ricezione-acquisizione dell’input riflette una spontaneità che è propria dei bambini: gli attori, privati di ogni aspetto sociale, giocano con gli oggetti che incontrano sul loro cammino, immaginando di trovarsi altrove rispetto alla prigione in cui sono rinchiusi, bramando una libertà che riescono a raggiungere solo grazie all’immaginazione. Il nudo diventa perciò il miglior costume per rappresentare un’umanità priva di artifici, non vincolata da pregiudizi e filtri mentali. In ogni azione non si manifesta troppa razionalità, ma è comunque presente la consapevolezza di possedere un corpo, che è in primo luogo veicolo di informazioni. In ogni caso, l’infantilità e l’attore non sono entità così distinte. Lo stesso Pirandello nei “Giganti della Montagna” scrive:

Facciamo i fantasmi, tutti quelli che ci passano per la mente! Con la divina prerogativa dei fanciulli che rendono sul serio i loro giochi la meraviglia che è in noi la rovesciamo sulle cose con cui giochiamo e ce ne lasciamo incantare! Non è più un gioco, ma una realtà meravigliosa, in cui viviamo alienati da tutto fino alla demenza!

D’altronde è propria degli teatranti la capacità di essere irrazionali e lucidi, sregolati e controllati contemporaneamente. Salire su un palcoscenico significa proprio questo: spogliarsi degli abiti della quotidianità, mostrare l’essenza di sé, nelle proprie fragilità e, a volte, nella vulnerabilità, sotto il grande riflettore, giudicati da un pubblico non sempre tollerante. Gli abiti sono quindi metafora di una cultura che, per il breve tempo del teatro, viene lasciata in proscenio, per essere ripresa solo alla fine dell’esperienza. Il potere che questo “costume” porta con sé mette a nudo anche lo spettatore, interroga nell’intimità più profonda e fa vacillare le certezze dell’uomo socializzato. Uno spettacolo così dirompente non può che scatenare contemporaneamente molteplici riflessioni, fino a penetrare nelle viscere della sua stessa origine: cosa vuol dire fare teatro?

FONTI

“I Giganti della Montagna” Luigi Pirandello

Note di regia di Emma Dante

CREDITI

Copertina

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