Già abbiamo parlato de Il Maestro e Margherita, romanzo scritto da Michail Bulgakov (1891-1940), considerato il capolavoro della letteratura russa novecentesca, analizzandone la “geniale struttura del romanzo nella sua estrema complessità”
Anche il Maestro e Margherita, come ogni grande opera, nasconde una lunga e travagliata genesi. Se il romanzo venne pubblicato postumo solo nel 1966, l’attività letteraria di Bulgakov si sviluppò in maniera burrascosa tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, epoca di profondi cambiamenti per la società sovietica sorta dopo la rivoluzione russa. Una nuova società che mise al bando ogni legame con l’eredità zarista, dalla religione alla tradizione letteraria: un problema non da poco per Bulgakov, scrittore “allevato in una stirpe di preti” (il padre era un noto teologo) e cresciuto a Kiev, città santa per gli ortodossi.
Durante lo Stalinismo molti artisti sovietici riscontrarono problemi con la censura esercitata dal regime: Majakovskij si suicidò, Mandal’štam morì deportato in un gulag, Bulgakov subì invece un boicottaggio letterario che l’autore, in una lettera indirizzata a Stalin, chiamò l’ergastolo del silenzio.
Considerato impropriamente un poputčik (попутчик), in quanto scrittore non allineato all’ideologia sovietica, le pièce di Bulgakov furono rimosse dai cartelloni teatrali, costringendolo a vivere gli ultimi anni in totale ristrettezza economica, malato, dimenticato.
Alla sua morte, Anna Achmatova lo ricordò così: “Vivesti duramente, fino in fondo, serbando il suo magnifico disprezzo”.
Fedele alla propria “vocazione” letteraria (“i manoscritti non bruciano”) e consapevole di non aver speranze di pubblicazione, Bulgakov rielabora ne il Maestro e Margherita (anche) un’autobiografia delle proprie disgrazie editoriali. Analoga è infatti la sorte del Maestro, il protagonista maschile del romanzo, il quale, ripudiato, rimane senza nome; ne resta ricamata soltanto una M. di Maestro o forse di Michail (Bulgakov). Dopo aver composto un racconto su Pilato, allegoria della responsabilità individuale, del potere statale, di Stalin, il Maestro sarà addirittura rinchiuso in manicomio.
Il primo filone narrativo del romanzo si diverte a sconfinare nel grottesco (il poshlost’ di Gogol’) per vendicarsi con morbosità e piacere contro i nemici del Maestro e quindi di Bulgakov stesso: i membri del MASSOLIT (in russo “letteratura di massa”), fittizia associazione culturale, basata sul prototipo dalla RAPP.
Nella Mosca letteraria descritta da Bulgakov non c’è salvezza per un intellettuale; più che di artisti, la città pullula di lacchè del partito e viene infestata da, come scrive Vittorio Strada, “strani bipedi, curiosi esseri gioiosamente dediti al loro vuoto, alla loro viltà, al loro egoismo” perseguitati da Satana in persona (Woland) e dai suoi nefasti accoliti.
Questi diavoli carnevaleschi risultano meno mostruosi delle loro vittime, anzi, proprio dall’inferno del realismo sovietico provengono le punizioni da infliggere ai moscoviti, in una sorta di contrapp
asso dantesco. D’altro canto Woland altro non è che “una parte di quella forza che eternamente vuole il male ed eternamente compie il bene”, così recita l’epigrafe iniziale di goethiana memoria.
Non c’è allora da stupirsi della consapevolezza con cui Bulgakov definì se stesso, sempre nella stessa lettera indirizzata al governo dell’URSS: “Sono uno scrittore mistico. Mi servo di tinte cupe e mistiche per rappresentare le innumerevoli mostruosità della nostra vita quotidiana, il veleno di cui è intrisa la mia lingua, la trasfigurazione di alcune terribili caratteristiche del mio popolo”.
M. Čudakova, Žisneopisanie Michaila Bulgakova (Cronaca di una vita), traduzione di C. Zonghetti, Bologna, Odoya,2013
V. Strada in La costruzione del romanzo in Il Maestro e Margherita, Torino, Einaudi, 1967
B. Gasparov, Michail Bulgakov in “Storia della Letteratura russa, Il Novecento”, vol. III, Torino, Einaudi, 1991