“Social synthetic” è il titolo della mostra dedicata a Seth Price al Museum Brandhorst di Monaco di Baviera. Inaugurata lo scorso ottobre, subito dopo la conclusione della mostra omonima allo Stedelijk Museum di Amsterdam, segna una tappa importante nel panorama istituzionale europeo per la carriera dell’artista statunitense. Come spesso accade nelle esposizioni d’arte contemporanea, anche in questo caso il titolo può suonare oscuro, in parte criptico: cosa significa “sintetico sociale”?
“Sintetico” suscita visioni e sentori di sostanze artificiali, plastiche, non esistenti in natura, manipolate o realizzate chimicamente, autonome, insomma, da una materialità naturale; nello stesso tempo pensiamo all’accezione metodologica, linguistica della sintesi come strumento unificante, semplificante e omogeneizzante, ciò che rende possibile l’operatività del pensiero. È proprio nella commistione di questi due approcci, materiale e linguistico, che si colloca e si reinventa l’opera di Seth Price, un lavoro complesso, eterogeneo e “aperto” (secondo la riflessione di Umberto Eco sull’opera d’arte contemporanea) che si radica nelle problematiche e nelle relazioni della società attuale, post-internet, post-industriale. Una sintesi “sociale”, appunto.
Nucleo fondante della ricerca artistica di Price, mai statica ma in continuo movimento metamorfico e inter-mediale (video, scultura, serigrafia su alluminio, “altorilievi” in PET), sono l’indagine e l’appropriazione di certi fenomeni culturali, indissolubilmente anche economici, estetici e storici: la distribuzione e la diffusione di immagini, simboli e racconti politici, la loro ricontestualizzazione, dispersione e modificazione tramite le piattaforme di informazione, il loro effetto sull’immaginario pubblico. La pratica di Price è legata alle infinite possibilità concettuali e all’impatto sociale cui, in effetti, ha portato il rapidissimo avvento di certe tecnologie digitali negli ultimi 30 anni. Muovendosi con abilità entro formati, materiali e possibilità narrative diverse, la prospettiva di Price è quella di un artista cresciuto negli anni 80 con i primi videogiochi blockbuster, i walkman e i lettori cd, l’incredibile circolazione di riviste e pubblicità pop e di moda, assistendo poi, negli anni 90 e primi 2000, alla diffusione capillare dei software per la manipolazione di immagini e musica, e all’utilizzo di motori di ricerca sempre più raffinati nella rilevazione e distribuzione di informazioni. Più di altri artisti contemporanei, dunque, Price investiga come il cosiddetto web 2.0 abbia influenzato la velocità e la percezione della cultura di massa, con le sue implicazioni biopolitiche ed estetiche.
Esempi, nel lavoro di Price, dell’immagine digitale come presenza fantasmatica e capillare sono le sue Silhouettes (2007-09). Forme apparentemente frammentate e irriconoscibili, realizzate sagomando materiali sintetici secondo complessi processi tecnici, si rivelano, ad uno sguardo più attento, come lo “spazio negativo” di una figura umana che compie azioni comuni: baciare, mangiare, dormire, ecc sono infatti immagini-azioni cercate online da Price, matrici visive di cui l’artista si serve intagliando nuovi spazi di senso, nuove forme autonome e nello stesso tempo dipendenti da un sistema di interconnessioni e di risorse digitali, di cui in qualche modo non si può più fare a meno. Questi meccanismi ricordano quelli già usati dalla cosiddetta Picture Generation degli anni ’70-80, un gruppo eterogeneo di artisti americani che, come pure Sherrie Levine nelle sue silhouettes a collage, già si interrogavano profondamente sulle dinamiche pubblicitarie e di dispersione dell’immagine mass-mediale.
Allo stesso modo, anche i Calendar Paintings (2003-04) di Price si pongono dialetticamente, con ironia, nei confronti dell’immagine grafica come bene di consumo collettivo: appropriandosi del formato del calendario, l’artista realizza una serie di tele stampate a getto d’inchiostro in cui per ogni mensilità si trova incorniciata la riproduzione di un dipinto americano o di un’immagine “pop” più o meno riconoscibile, che in questo pacchetto grafico cartaceo andrebbe a diffondersi e ricontestualizzarsi in uffici, cucine, salotti e studi del cittadino americano medio. Il gusto per la grafica dai colori stridenti e brillanti, per i layout e le composizioni di quello che il buon gusto contemporaneo considera il “junk design” degli anni 90, dai videogames al packaging alimentare, dalla moda ai fumetti, dai notiziari tv fino ai video propagandistici dei jihadisti dei nostri giorni, rientrano appieno nel materiale vivido ed esigente in cui Price intende immergersi nella sua pratica. Niente viene risparmiato o catalogato come off-topic dall’artista, che ritiene l’universo visivo inter-relazionale di oggi un enorme bacino da cui pescare frammenti che diano risposte, o semplicemente si relazionino in modo aperto ed enigmatico, agli interrogativi politici e sociali che ci circondano. Come ad esempio in “Digital Video Effects: Holes” (2003): in un video, installato in un ingombrante e obsoleto schermo tv posto sul pavimento della sala, si susseguono immagini fisse, censurate da giornali o siti di informazione pubblica perché troppo cruente. Le immagini, lungi dall’imporsi violentemente nello spazio dell’osservatore, prendono forma di volta in volta grazie a un’accumulazione di puntini, che come fori, spioncini sulla realtà, ma anche unità compositive alla Lichtenstein ricostruiscono l’immagine orrida che siamo in grado di riconoscere solo lentamente.
Il perturbante e l’inquietante si mischiano insieme al banale e all’ovvio dell’immagine fruita quotidianamente, dell’immaginario “cheap” digitale e delle possibilità di software di editing visuale. Questo senso di straniamento si percepisce anche guardando il video “Untitled Film/Right” (2006), in cui una strana e sinuosa forma scura (l’onda di un mare in tempesta? un rendering 3D? uno screensaver?) si mostra agli occhi dell’osservatore quasi ipnotizzandolo nel suo moto disomogeneo ma costante, mentre lo sfondo cambia colore, come un arcobaleno o l’ambientazione kitsch di un videogioco. La ripetizione ossessiva di queste immagini mute, che chiamano a sè mille riferimenti alla cultura di massa, esplica la pratica ambigua, poliedrica e quasi “sospesa” di Seth Price, che non pretende mai di dare risposte esatte o di schierarsi frontalmente nei confronti dei meccanismi sociali e mediali di cui si nutre ma si propone, invece, di sollevare il dubbio, di destabilizzare la percezione, di creare nuove relazioni con l’immagine digitale. Questo è particolarmente visibile, a mio avviso, nei grandi lightbox (2016-17) installati nel piano interrato del Museo: sei enormi scatole luminose verticali, quasi mistiche pale d’altare, che attirano a sè per la brillantezza del loro colore rosa-dorato. Solo dopo qualche secondo ci si rende conto che le singole opere sono gigantesche, quasi mostruose, fotografie di pelle di persone diverse, ciascuna il frutto di un meticoloso assemblaggio seriale di scansioni fotografiche realizzate da software di visualizzazione satellitare. La pelle diventa, da banale “accessorio” quotidiano, quasi il manifesto della computabilità dell’immagine digitale, delle sue potenzialità visionarie e insieme inumane, artificiali, innaturali.
La costante ossessione di Price per la circolazione delle immagini e la distribuzione di sensi e significati lo accompagna sin dall’inizio dei suoi esperimenti come filmmaker: nel video “Painting Sites“, del 2000, la sua voce racconta una favola folkloristica mentre la successione di immagini è resa possibile dalla digitazione, in un motore di ricerca (quando Google Immagini, da notare bene, non esisteva ancora), della parola “painting”. Allo stesso modo è presente nelle installazioni come “Mylar Sculptures“(2005-08), in cui singoli frame e frammenti di video jihadisti in circolazione su Youtube vengono serigrafati a colori accesi su enormi rotoli di plastica trasparente, aggrovigliati, piegati o ordinatamente stesi lungo le pareti e sui pavimenti delle sale del museo.
La tensione positiva tra caos dell’informazione, incoerenza, sospensione e invece articolazione, narrazione e ordine sono al centro della riflessione visuale di Seth Price, un artista dall’opera complessa e profondamente radicata nei meccanismi di fruizione dell’immagine contemporanea. Nel suo lavoro non c’è interesse per il concetto di pratica artistica autonoma, di produzione “ex nihilo”, distaccata dalla realtà socio-politica circostante. Con le sue stesse parole, “la produzione, dopotutto, è la fase escretoria in un processo di appropriazione“. L’appropriazione, l’indagine e la manipolazione del panorama visivo in cui siamo immersi è dunque, per Price, la potenziale chiave di lettura della nostra presenza politica.