Simbiosi. Una parola bellissima. Dal punto di vista biologico è un termine che indica un rapporto di interdipendenza tra due entità: in particolare, la loro volontà di cooperazione al fine di creare un sodalizio che guardi alla ricerca di un beneficio reciproco. Bellissimo, inoltre, è il fatto che una società italiana, con alle spalle un lungo e riconosciuto percorso storico, abbia cercato di tessere un legame simbiotico al di fuori degli uffici e delle fabbriche. Con chi? Con i giovani, le avide e brillanti menti di domani.
Lo scenario: il Museo delle Culture Mudec, a Milano, un suggestivo esempio di recupero urbano nell’area dell’ex Ansaldo. Le opere: l’esposizione di alcuni prototipi, realizzati dalla De’Longhi su progetto degli studenti di design provenienti dalle università di tutta Italia, nell’ambito del “Progetto Simbiosi: De’Longhi per i giovani designer”. Un’idea che ha visto schierarsi, da una parte e dall’altra, candidati freschi di studi dotati di un’incredibile abilità nel creare una commistione tra innovazione e tradizione, puntando sulla rapida e indeclinabile evoluzione della tecnologia eliminandone l’aspetto spersonalizzante. La ricerca di un “io” persona, ovvero la cosa più difficile da ritrovare in un paradigma frenetico come quello della società moderna.
Il progetto, proposto da De’Longhi nell’ottobre 2016, nasce dalla volontà di porre un significativo accento sul concetto di tradizione e di valorizzare le eccellenze del Made in Italy. Fin dalla sua apertura è stato pensato per gli studenti di importanti centri di studio in fatto di design: Politecnico di Milano e di Torino, Università di Palermo, Napoli e Genova, La Sapienza di Roma, Accademia Belle Arti di Verona, IED di Venezia, IUAV di Venezia e IUAV di S. Marino, ISIA di Firenze. Questi centri di sapere, dal riconosciuto primato, hanno giocato un ruolo fondamentale nel plasmare menti brillanti nella reinterpretazione di un concetto chiave della cultura italiana e moderna come il caffè. Noi ne abbiamo parlato con l’architetto Francesca Cester, responsabile CMF e New Trend dell’Ufficio di Disegno Industriale De’Longhi.
“Il Progetto nasce per la ricerca di un dialogo, soprattutto per quanto riguarda le aziende. Simboleggia un’apertura futura del panorama di design, sociologico, di produzione. I giovani sono i nuovi captatori, sono loro a fare l’evoluzione di mercato e per questo vanno ascoltati. In Italia, purtroppo, c’è una tendenza ad avere una visione esterofila: il nostro obiettivo è stato quello di indirizzare i giovani a riprendere coscienza dell’immenso patrimonio culturale del nostro Paese. E questo è un campo dove è possibile prendere coscienza dell’eccellenza della tradizione italiana. Si tratta di uno scambio reciproco: le capacità della nostra multinazionale, che ha mantenuto un forte legame con le origini, vengono messe al servizio dei giovani e viceversa. Il contest che abbiamo creato puntava proprio su questo: il recupero di elementi conosciuti in tutto il mondo in commistione -ed evoluzione- con le idee dei giovani.”
Come in ogni gara che si rispetti, anche qui abbiamo un vincitore. E il primo classificato è un team del Politecnico di Milano (Facoltà di Design & Engineering), composto dagli studenti Davide Parenti, Filippo Zambrelli e Federico Zagatti, con un prototipo dal nome evocativo di Pensiero. Quello che ognuno di noi ha in testa quando si sveglia la mattina, mentre vaga per casa alla ricerca dell’interruttore della luce.
“Pensiero nasce dalla volontà di ampliare l’esperienza legata all’assunzione del caffè. Sfruttando le caratteristiche di ottimo fertilizzante del fondo del caffè, è stato così deciso di trasformare ciò che è solitamente considerato scarto, in regalo. […] L’assunzione stessa del caffè viene valorizzata avvicinandola a tematiche sempre importanti e sensibili di riciclo, eco sostenibilità e rispetto per la natura.”
Quello che più colpisce, però, è l’utilizzo di aprire un contest che abbia come punto focale proprio il consumo di caffè. Non esiste miglior simbolo per descrivere la nostra società della caffeina: il caffè al bar è un rituale, il caffè è un carburante, il propellente che spinge nello spazio i nostri corpi sballottati da una vita vissuta sempre di corsa. Dov’è finito, in tutto questo, il significato originario del ‘bere un caffè’, l’attimo di degustazione collettiva che spezza l’entropia della giornata? Lo chiediamo a Francesca Cester.
“Ci si è concentrati, all’interno del progetto, su un concetto-chiave che gode, a nostro giudizio, di una grandissima importanza: la ritualità. Questo avviene per due motivi: prima di tutto perché ha a che fare con un aspetto sempre più ristretto dal punto di vista tempistico, che è appunto quello del momento di relax. In secondo luogo, non bisogna dimenticare che stiamo vivendo, nella nostra epoca, una straordinaria evoluzione tecnologica. La quale, spesso, porta alla spersonalizzazione di sé. Per contrastare tutto questo, le ultime tendenze si sono stabilizzate sulla necessità di ricercare l’io più umano, ovvero il recupero di quei processi di rito che ci coccolano e ci procurano piacere. Ad esempio creando dispositivi che abbiano sotto controllo il nostro benessere: il RING-LAX, che misura il livello di stress in ufficio, è un segno di questo sguardo continuamente puntato sul futuro. Ma in tutto questo gioco di prospettive è necessario non dimenticarsi che il richiamo è, sempre, quello delle nostre tradizioni e delle nostre origini, che sono le pietre miliari sulle quali si fonda la ritualità -e la gestualità- del bere il caffè.
Tradizione e innovazione, ritualità, simbiosi e giovani cervelli fumanti. Molti si lamentano che le aziende non danno opportunità ai giovani. De’Longhi l’ha appena fatto, e continuerà a farlo. Ora tocca alle altre.
Un ringraziamento speciale a Francesca Cester per la sua disponibilità e gentilezza.
Foto dell’autore