In Il disagio della civiltà, Sigmund Freud ci rende partecipi di una verità alquanto desolante: perché una società prosperi, il singolo è costretto a inibire le sue pulsioni più primordiali e istintuali – dunque o si vive insieme, o si vive appagati.
Ma altrettanto interessante è il modo in cui Freud espone l’origine delle civiltà, e lo fa attraverso una sorta di mito, che non pretende certo di avere veridicità (prei)storica, ma di aprire gli occhi sui processi mentali che ci hanno portato a costituire delle collettività coscienziose: si tratta della teoria dell’orda primordiale.
Pensiamo, dice, ad una primitiva orda di ominidi. Il capobranco, imperioso e autoritario, trattiene le femmine tutte per sé, indicendo così un tabù per i propri figli maschi. Ma da ogni costrizione nasce una ribellione, e infatti i figli decidono di stipulare un’alleanza per uccidere il padre: è la prima forma di società organizzata. Ma non solo: per inglobarne il potere, dopo il parricidio i figli mangiano le carni del loro padre, un atto simbolico che permetterà loro di prendere il suo posto. Dal derivante senso di colpa, scaturiranno poi morale e religione.
Abbiamo detto che si tratta di un quadro esplicativo, non di un avvenimento realmente accaduto. Ma se così fosse stato, come potrebbe essere raccontato? Lo scopriamo con Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, romanzo di Roy Lewis che vede protagonista una famiglia di ominidi della Rift Valley, con i loro tentativi di civilizzazione e controllo ambientale, colorato da un tale umorismo anacronistico che, per quanto riguarda il biologo e naturalista Théodore Monod, “la lettura del libro lo aveva fatto ridere tanto che era caduto da un cammello nel bel mezzo del Sahara”.
Conosciamo così Edward, capobranco e brillante inventore, portavoce dell’etica dell’“evolviti o muori”, le cui tensioni idealistiche lo portano a rivoluzionare la vita dell’orda, dall’utilizzo del fuoco all’acquisizione della dieta onnivora. Suo fratello, lo zio Vania, rappresenta invece la resistenza al cambiamento, con il suo ostinarsi a vivere ancora sugli alberi e il suo orgoglioso rifiuto della postura eretta.
Tra i figli di Edward troviamo i precursori delle arti e della tecnica: chi è abile nel lavorare la selce (artigiano), chi nelle pitture rupestri (artista), chi nella volontà di addomesticare gli animali selvatici (allevatore).
Chi narra la vicenda in prima persona è il secondogenito di Edward, Ernest, teso a riflettere attivamente su ogni eventualità, e sempre dubbioso riguardo agli slanci evoluzionistici del padre e sulla sua attitudine idealistica. Ernest rappresenta il filosofo, lo speculatore metafisico – tanto che è lui, per primo, a ipotizzare l’esistenza della vita dopo la morte. Ma forse, in questo caso, si tratta di considerazioni ancora troppo pionieristiche, tanto che anche suo padre fatica a scorgere l’utilità di tali pensieri.
Edward è un uomo (scimmia) pragmatico, e non perde occasione di dimostrarlo, ad esempio quando afferma:
“L’unico colore sensato, per la pelle umana, va dal bruno scuro al kaki, che è così pratico… il colore della savana arida, il colore dei leoni. […] E tu, magari, la prossima volta mi verrai a dire che c’è qualche altra specie di ominidi che va matta per la pelle bianca!”
In quale altro romanzo potremmo trovare un’esclamazione che ribalta i pregiudizi razzisti, mezzo milione di anni in anticipo sull’invenzione del razzismo?
E così, dai tentativi di sondare i possibili utilizzi del fuoco, alle varie battute di caccia supportate da strumenti sempre più raffinati, fino all’introduzione dell’esogamia, durante la lettura ci si rende conto di stare assistendo a tutte le tappe fondamentali che hanno caratterizzato l’evoluzione del genere Homo. Ci si diverte, per giunta.
Parricidio e patrifagia… due atti estremi, certo, ma che ben esemplificano una considerazione veritiera sia nel Pleistocene che ai giorni nostri: se vuoi ottenere risultati, devi sporcarti le mani.
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