Nella fitta foresta di cataloghi, libri e riviste delle librerie d’arte e dei bookshop dei musei è facile lasciarsi catturare da immagini affascinanti, enigmatiche e persistenti, che attirano a sè inspiegabilmente con la sola forza della carta stampata.
Un volume in cui mi sono imbattuta di recente incarna particolarmente bene questo concetto di silenziosa e magnetica attrazione: in copertina domina un cielo di nubi rosa e violacee, un cielo romantico, delicato e insieme potente, coperto da un muro di testo, una membrana segnica quasi indecifrabile. Solo sfogliando qualche pagina si capisce che quello sulla copertina è l’unico testo presente in tutto il libro, che si dispiega infatti come un archivio illimitato di accostamenti di immagini, un racconto visivo multiforme e immersivo, un diario intimo in cui sono le fotografie a incarnare una storia viva ed evocativa, o molteplici episodi di una biografia. Il testo in copertina è l’insieme ordinato e lineare dei titoli di tutte le fotografie che si susseguono nel libro: come elemento discorsivo, razionale ed oggettivo, rimane all’esterno del mondo complesso, romantico e visuale che si genera dentro la carta.
È l’universo visivo di Wolfgang Tillmans (1968, Remscheid), artista e fotografo tedesco attivo a Londra e a Berlino sin dalla metà degli anni ’90, a costituire il corpo immaginifico e pregnante di queste pagine, insieme libro d’artista e catalogo pubblicato nel 2013 in occasione delle mostre al Moderna Museet di Stoccolma e alla Kunstsammlung di Düsseldorf. Le fotografie di Tillmans, in questo libro come anche nella globalità della sua opera, ritraggono spazi, tempi e oggetti apparentemente disomogenei e slegati tra loro: piante ed alberi, serate nei club più underground di Londra, mucchi di vestiti sul letto, avanzi di cibo, paesaggi e cieli romantici, nudi dolci o crudi, amici in pose goliardiche, senzatetto.
L’eterogeneità del vocabolario visivo di Tillmans ha spesso portato, secondo molti critici erroneamente, a considerare i suoi scatti come snapshots veloci, figli del disincanto visivo o della rapidità e della saturazione delle immagini postmoderne. Al contrario, la diversità delle forme, cristallizzate nelle fotografie dell’artista tedesco, ci invita a riconoscere il suo sguardo acuto, disinteressato a distinzioni tematiche o contenutistiche, a discorsi classificatori e gerarchie del visibile, ma attento a riconoscere in ogni figura un’immagine, un’icona incisiva e interrogante lo sguardo di chi incontra. Tillmans è capace di cogliere gli istanti in cui la realtà intorno a lui si manifesta nelle sue forme più effimere e precise, è in grado di raccontare uno stato d’animo, un odore, una situazione spaziale, un’impressione sonora senza la necessità di una cornice discorsiva lineare. In questo senso le fotografie di Tillmans non sono più distinguibili in paesaggi o volti, in tracce astratte di colore o nature morte riconoscibili, in figure chiare o macchie informi: sono tutti segnali, “indici” (pensando a Rosalind Krauss e alla sua riflessione sulla materia concreta della fotografia) colti da uno sguardo non categorizzante.
Quello del libro è un formato prediletto dall’artista tedesco, che ha sempre visto nella carta stampata un mezzo eccellente per far parlare le proprie immagini e dar loro la possibilità di sviluppare un dialogo silenzioso, grazie alla giustapposizione e alla consequenzialità delle pagine: sin dagli inizi della sua carriera, infatti, Tillmans ha sempre collaborato attivamente anche con riviste “pop”, di moda, costume o cultura underground (tra queste i-D, Blitz, Spex o The Face), rompendo quel comune pregiudizio un po’ snobista che differenzia da sempre il mondo della moda e della distribuzione “di massa” da quello della fotografia come pratica artistica (una scuola di pensiero molto forte in Germania, se pensiamo ai Becher, Candida Hofer, Thomas Gursky, Thomas Struth e a molti altri).
Ciononostante, come Tillmans ribadisce in un’intervista con Hans Ulrich Obrist, sottolineando ancora una volta la sua consapevolezza formale e strutturale, le sue fotografie cercano di essere singolari, autosufficienti, “eloquenti” di per se stesse: l’immagine singola viene pensata quasi come il fossile di un’esperienza vissuta precisa, in grado di rendersi manifesta autonomamente nei confronti di chi la guarda. Ogni immagine selezionata e scelta da Tillmans racconta di sè all’osservatore, in una sua autonomia formale e cromatica, a differenza di un servizio di moda in cui i vari elementi hanno valore solo nel quadro di una composizione discorsiva.
Solo in quest’ottica di precisa identità singolare delle immagini riusciamo a leggere le installazioni di Tillmans, ovvero la configurazione spaziale nei contesti espositivi del suo lussureggiante panorama visivo.
Il modo peculiare con cui l’artista tedesco accosta, separa, ingrandisce, rimpicciolisce, distingue e riassembla le sue fotografie, nei libri così come nelle mostre, esplica il suo amore e il suo attaccamento all’immagine come forma autonoma e dispositivo evocativo: il formato esageratamente diverso di alcune fotografie, così come il loro posizionamento eclettico e disseminato sulle pareti dei musei, sui tavoli e sulle teche distribuite nello spazio, danno l’impressione di essere catapultati nel diario intimo di un accumulatore, produttore e consumatore seriale di immagini, che cerca di dare forma a una mappa mentale, a una costellazione spaziale di ricordi intimi, associati e agglomerati da ragioni silenziose e mai del tutto intellegibili. Come gli adolescenti appendono poster delle proprie band preferite o locandine di film nella loro camera da letto, accumulando materiale visivo sparpagliato che parla di loro nel modo più onesto e grezzo, anche Tillmans organizza i suoi spazi secondo questo schema solo in apparenza caotico, sacro e insieme quasi ossessivo e feticistico nei confronti dell’immagine fotografica. È anche per queste ragioni che vinse il prestigioso Turner Prize di Londra nel 2000, colpendo la giuria per il suo approccio al medium fotografico così intimo, effimero, e allo stesso tempo così intenso e universale.
Celebri sono anche le sue fotografie fatte “senza la macchina fotografica“, realizzate cioè in camera oscura mediante l’uso di acidi, colori e liquidi di vario tipo versati direttamente sulla superficie fotosensibile della carta fotografica. Questa procedura, in cui Tillmans riesce a bilanciare capacità decisionale e caso, accuratezza ed errore, permette la genesi di immagini quasi magiche, al confine con la pittura ma anche con la scultura, nella possibilità generativa di uno spazio altro e di fantasmi di anatomie quasi umane. Di nuovo, se questi lavori possono sembrare nettamente distinti rispetto alle sue fotografie “realistiche” (o a quello che questo termine vuole identificare), Tillmans intende invece indagare la materia fotografica nella sua totalità, nella sua essenza mediale così come nella sua presenza oggettuale, come frammento di una realtà fisica in divenire, come brandello autobiografico. Per Tillmans, in conclusione, non sussistono differenze tra rappresentazione e astrazione: tutto è parte del molteplice panorama del visibile e dell’esperienziale, in cui l‘occhio di chi guarda rimane sempre “strumento sovversivo” di analisi della realtà, chiave di lettura del mondo e delle sue enigmatiche apparizioni. Certezza e dubbio, conosciuto e sconosciuto, familiare e perturbante si intersecano e si rincorrono nel multiforme e sfuggente universo visivo di Wolfgang Tillmans.
CREDITS
Immagine 1
Immagine 2 a cura dell’autrice
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Immagine 5
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