Jacopo Pontormo. <> e il coro laurenziano.

Il Diario di Pontormo non è un bel libro; già il titolo, “Il libro mio”, lascia intuire un egocentrismo smodato. Prima di iniziare, però, vorremmo che svuotaste il termine “egocentrismo” da qualsiasi connotazione negativa: rendetelo neutro, per favore. Perché Pontormo non sarà uno scrittore particolarmente illuminato, ma dargli del megalomane sarebbe in primo luogo ingiustamente offensivo, e poi storicamente sbagliato: il solo pensiero ci fa sorridere.

Andiamo con ordine. Jacopo Carucci, Pontormo, è un bravo artista fiorentino a cui Cosimo I de’ Medici, nel 1545, decide di far affrescare il coro della Basilica di San Lorenzo. Giorgio Vasari criticherà in maniera molto diretta la pittura di Pontormo, la liquiderà dicendo di non aver compreso la sua <<ghiribizzosa maniera>>; chiunque abbia letto le Vite capirà quanto debba essergli costata questa critica, questa unica nota negativa, un neo in una trafila di vite brillanti e geniali. Ma comunque, abbiamo detto: Cosimo I de’Medici commissiona a Pontormo gli affreschi del coro laurenziano; Pontormo si rimbocca le maniche e, pennello alla mano, comincia a dipingere; Vasari, circa dieci anni più tardi, critica questi affreschi definendoli, in sostanza, strani. Nel 1738 vengono distrutti. Ci manca ancora un tassello: Pierfrancesco del Riccio, nonché maggiordomo di Cosimo I, nonché uomo apertamente legato alle dottrine calviniste, valdesiane. Ma perché Cosimo I gli permette di realizzare un’iconografia apertamente eterodossa? Perché, nel 1540, ancora non era considerata eterodossa. O almeno, non lo era a Firenze. Cosimo è un personaggio machiavelliano, vuole che Roma riconosca la sua autorità. E, per farlo, liberalizza le eresie: una sorta di ricatto.

E Jacopo? Jacopo dipinge, e nel suo Diario scrive la sua vita: cosa mangia a pranzo, a cena, le chiacchierate con gli amici –pochi-. È malato, soffre di idropisia, sa che presto morirà. E sa che anche l’arte è peritura, destinata a morire. Non per la Controriforma, che colpirà i suoi affreschi fino a farli svanire, ma proprio per natura: la pittura non può durare per sempre. Ecco che <<Il libro mio>> diventa, per Pontormo, un modo per scandire le proprie giornate, per controllare un tempo che sembra sfuggirgli dalle mani. Un Diario come orologio, come tentativo disperato di ordinare ed essere padrone della propria esistenza, dove arte e prosa si fondono in maniera completa, senza alcuna differenza. Al centro del foglio, Pontormo scrive la propria vita; ai margini, gli affreschi. E sa che, sia l’una che l’altra, sono destinate a morire:

[…] io feci la testa di quella figura che è sopra quella che sta così: [schizzo]

E lunedì feci quello braccio di quella figura di testa che

alza e lasca’la

insino quivi come mostra quello schizzo: [schizzo]

Martedì feci quella gamba con la coscia

sotto a quelle schiene dette di sopra, cioè: [schizzo]


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