Nell’immaginario collettivo italiano abbiamo sempre visto gli Stati Uniti come il luogo dove idee futuristiche, all’apparenza un po’ folli, diventano realtà, dove imprenditori con molta tenacia ma pochi soldi realizzano progetti contro ogni aspettativa, rivoluzionando il mondo dell’IT. Stiamo parlando della Silicon Valley, incubatore di imprese con pochi rivali nel mondo. Fino a pochi decenni fa, perché adesso un rivale agguerrito c’è, ed è la regione di Bangalore, una città di 8 milioni di abitanti nel sud dell’India.
In origine area rurale sottosviluppata, Bangalore ha assistito ad un forte sviluppo nel settore dell’ingegneria dell’informazione, tanto da vincere la classifica delle città più dinamiche al mondo nel 2016 del Word Economic Forum. I fattori chiave che le hanno permesso di scalzare tutte le altre città sono la vivibilità e l’attenzione per l’ambiente, e la rendono attualmente la migliore città dove investire.
Il fenomeno di Bangalore parte da lontano: ne scriveva già nel 2006 Federico Rampini nel suo L’impero di Cindia, sottolineando come, dei due colossi del terzo millennio, Cina e India, il secondo sia sempre sottovalutato. La svolta per l’India e per Bangalore fu l’ondata di panico dovuta al famoso Millennium Bug: come ricorderete, tutto il settore dell’informatica rischiava il collasso perché i programmi non erano in grado di gestire il passaggio della data dal 31/12/1999 al 1/01/2000. Mancava personale che si occupasse di aggiornare i programmi, e la Texas Instrument decise di avvalersi dell’aiuto di un distretto emergente nel settore dell’IT: Bangalore, appunto.
Da allora il successo è stato inevitabile, grazie ad una forza lavoro molto qualificata che parla inglese e accetta stipendi mediamente più bassi dei colleghi americani. Secondo i dati di Rampini, già dieci anni fa il 12% degli scienziati di tutte le facoltà americane erano indiani, e addirittura il 36% dei matematici della Nasa. “Harvard è la scelta di ripiego per chi non entra da noi”, affermava, non senza uno spirito di rivalsa, il professor Soumitra Kumar Nandy, dell’Indian institute of science.
Se l’emigrazione per lavoro era la norma per gli ingegneri indiani, con il tempo i rapporti di potere si sono invertiti: sono gli americani che emigrano in India, tanto che la BCC parla di The indian dream. A Bangalore si trova già il 40% delle industrie del Paese nel settore IT, e, sempre secondo il Word Economic Forum, è oggi la diciannovesima città più tecnologica al mondo, sfruttando una popolazione giovane di nativi digitali che mastica tecnologia nel lavoro e nella vita privata. La società di consulenza McKinsey prevede che entro il 2020 ci saranno a Bangalore 2 milioni di posti di lavoro soltanto nel settore IT, con un export del valore di 80 miliardi.
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L’India, si sa, è un Paese di grandi contrasti: a Bangalore sussiste infatti un’anima rurale, povera, e con parecchi problemi di sopravvivenza (come quello dell’acqua, fondamentale risorsa per l’agricoltura). Sebbene siano due mondi apparentemente inconciliabili, a volte si intrecciano e dialogano tra di loro. Ce lo racconta la BBC, che nella serie Digital Indians presenta la storia di Rikin Gandhi, figlio di immigrati indiani nel New Jersey. Torna in India per lavorare ad un progetto, poi fallito, sul biodiesel, poi studia per conto di Microsoft Research la ricettività delle persone comuni verso la tecnologia, infine decide di fondare un’organizzazione non governativa che permetta ai contadini di girare video sulle loro attività e di condividerli. Si chiama Digital Green. L’obiettivo è quello di mettere in luce problemi comuni e diffondere le soluzioni che sono state trovate, per migliorare la qualità della vita. Ai contadini viene fornita l’attrezzatura necessaria e un corso di base. Circa il 40% delle persone che guardano un video mette in pratica quello che gli viene insegnato, considerando che nei primi cinque anni di vita del progetto più di 150.000 contadini hanno guardato circa 2600. Sicuramente un bel modo per mettere la tecnologia al servizio della vita di tutti i giorni.