Comunemente viene definita arte africana quella che raccoglie la produzione artistica creata nei territori a sud del Sahara, in particolare nella zona del Golfo di Guinea, dove, nel tempo, si sono sviluppate diverse importanti civiltà. Ne è un esempio la cultura Nok, nata intorno al V secolo a.C. nell’attuale Nigeria. Ai Nok si deve la strepitosa quantità di oggetti in ceramica, pietra e ferro: vasellame, pentole, armi, ma soprattutto curiose statue probabilmente considerate sacre e da venerare. Queste statue, fabbricate in terracotta, unico materiale che riesce a sopravvivere all’usura del tempo e all’avidità degli uomini, portano con sé i misteri di una civiltà abile nell’arte del fuoco, di cui restano perlopiù frammenti di teste umane, animali e reliquiari. A seconda del rango e del sesso, le statue presentano una propria gestualità: le donne sono spesso in piedi, mentre gli uomini inginocchiati. Le teste occupano gran parte del corpo e i volti sono finemente lavorati: occhi generalmente triangolari e sopracciglia marcate, narici larghe e grandi labbra.
Ogni oggetto creato aveva una sua precisa funzione, dettata dalle credenze e dai culti. Il culto degli antenati, ad esempio, che non solo delineava il gruppo familiare ma permetteva una maggiore coscienza di sé, e l’animismo, nato per spiegare i fenomeni naturali partendo dall’idea che tutto ciò che ci circonda possiede un’anima. Ogni credenza prevedeva riti rintracciabili oggi sia nelle pitture parietali sia nelle maschere. L’arte rupestre rappresentava per lo più scene di caccia, danze e rituali magici. Gli sciamani San, in Sudafrica, dipingevano dopo aver raggiunto lo stato di trance, secondo tipiche usanze locali. Tra le pitture più importanti la Dama bianca, in Namibia: riscosse successo per l’aura di mistero che la circondava. Una principessa d’Europa? Una cacciatrice dalle lunghe gambe bianche? No, semplicemente un guerriero africano dipinto in bianco come ha confermato l’archeologo Tilman Lenssen-Erz, che ha visto in queste pitture rupestri non solo un veicolo per trasmettere informazioni ai posteri, ma anche un tranquillante in situazioni di disagio dovute a siccità o fenomeni naturali avversi.
Discorso a parte meritano le maschere, utilizzate durante i riti religiosi per incarnare lo spirito risvegliato o con funzione propiziatoria durante particolari cerimonie. Generalmente fabbricate in legno lavorato e pelle e decorate con ossa, piume e foglie, le maschere non hanno mai un significato puramente estetico: gli sciamani le utilizzavano per avvicinarsi agli spiriti e, perciò, ognuna di esse aveva caratteristiche peculiari dettate dall’uso. Tra i Dogon del Mali, ad esempio, è forte il culto degli antenati, che porta i membri della società a mascherarsi durante le cerimonie. Circa settanta maschere identificano, per questo popolo, i diversi spiriti. Tra le più particolari “la madre delle maschere”, alta sei metri, raffigura un noto antenato. A causa delle grandi dimensioni non può essere indossata, ma la sua importanza sta nel rendere il luogo in cui si trova mistico.
La spiritualità, i riti, la forza della natura e dell’energia… Questi sono gli elementi presenti nell’arte subsahariana, un mondo completamente diverso da quello occidentale, non solo per cultura e usanze, ma anche per materiali utilizzati, credenze da rintracciare dietro oggetti di uso quotidiano e rituali che regalano mistero all’arte. Una cultura scoperta molto tardi: era il XVI secolo quando gli esploratori europei toccavano queste terre rimanendo incantati dal misticismo e dall’oscurità della sua cultura.
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