Il volto del dolore dietro lo stupro: il caso Sheeva Weil

Si stanno spendendo veramente molte (troppe?) parole riguardo al tema dello stupro nelle ultime settimane; i recenti fatti di cronaca, (gli episodi di violenza sessuale avvenuti a Rimini e a Firenze ad opera rispettivamente di 4 ragazzi extracomunitari e di 2 rappresentati delle forze di polizia), hanno dato inizio ad un acceso dibattito dell’opinione pubblica, dibattito continuamente alimentato da nuovi dettagli che emergono dalle indagini e dalle polemiche suscitate dalle dichiarazioni del politico di turno.

L’attenzione, come al solito, è sempre sui carnefici perché in realtà a nessuno interessa lo stupro in sé, ma semplicemente l’uso che si può fare della notizia. In entrambi i casi citati i violentatori sono rappresentanti di categorie ben identificabili. Quindi, meglio di così…
E se per una volta, invece, provassimo a metterci nei panni della vittima?

Sheeva Weil, in una testimonianza rilasciata al Guardian nel 2015 e ripresa pochi giorni fa da Internazionale, spiega, con una lucidità e un coraggio ammirevoli, cosa voglia dire “stupro” per chi la violenza l’ha subita sulla propria pelle. Sheeva fu violentata il primo anno di università; l’intervista risale a 4 anni dopo, al termine di un lungo e doloroso percorso di psicoterapia.
Inizia parlando di sé:

I miei amici vi direbbero che amo ballare, che spendo troppi soldi in cibo e che sono dipendente dal mio smartphone. Quasi nessuno vi dirà che sono stata stuprata. Questo perché molti di loro non ne sono nemmeno a conoscenza.

Prosegue spiegando cosa sia la sindrome da stress post-traumatico e raccontando come il senso di colpa l’abbia tormentata, giorno dopo giorno per anni: era convinta che in parte la responsabilità dello stupro fosse sua. Lei che era ubriaca, che non era riuscita a ribellarsi allo stupratore, lei che, inizialmente, lo aveva perfino trovato un uomo attraente. Questo è solo un frammento dell’enorme dolore che deve sopportare una vittima di stupro.

Dovrebbero farsi un esame di coscienza tutti quelli che strumentalizzano queste vicende per motivi politici, tirando acqua al proprio mulino; quelli che accusano tutti i migranti di essere stupratori solo per giustificare i loro futili pregiudizi razzisti e quelli che usano l’episodio di Firenze per gettare fango sulle forze dell’ordine, accusando tutti i poliziotti di abusare del potere conferito loro dalla divisa. Dovrebbero vergognarsi le testate giornalistiche, che pubblicano articoli con dettagli morbosi e titoli assurdi, solo per accaparrarsi qualche click in più e lucrare sulla tragedia.
Spesso il miglior segno di riconoscimento per la dignità del dolore altrui non sono l’accusa o l’indignazione manifeste, ma del rispettoso silenzio.

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[Alda Merini]

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